sabato 27 febbraio 2010

Il Tg1 "assolve" Mills

La casta (assai poco casta) dei cosiddetti giornalisti sa che gli italiani sono capre, bamboccioni che non leggono e si attaccano alla tetta, spesso non metaforica, della tv e di "mamma" Rai. 

Servilismo e Arroganza arrivano a nascondere i fatti in modo spudorato, sapendo di poter contare su Ignoranza e Pigrizia, le migliori alleate della Menzogna.

Fino a quando glielo lasceremo fare, avranno ragione loro. Ma ricordiamoci che senza un'informazione indipendente, non c'è democrazia.

domenica 21 febbraio 2010

Sanremo, bignami d'Italia


Penso al Festival di Sanremo e mi viene in mente la celebre tripartizione arbasiniana delle italiche carriere: brillante promessa, solito stronzo e venerato maestro. In quale fase di questa scansione si trova il carrozzone sonoro? Avendo da tempo superato gli anni d’oro, verrebbe naturale annoverarlo tra i soliti stronzi, se non altro per la mediocre qualità delle canzoni in gara e soprattutto dei vincitori (Mengoni a parte). Ma l’incredibile capacità del Festival, fenomeno unico al mondo, di riflettere gli spiriti profondi del Paese, unita al fatto di aver raggiunto la ragguardevole cifra di 60 edizioni, lo fa avvicinare allo status prestigioso di maestro da venerare.
Come può vincere una canzone dal testo insulso (“Vorrei far l’amore in tutti i luoghi in tutti i laghi”) e interpretata con sempiterno stile neomelodico da un giovane vecchissimo di nome Valerio Scanu? Due le ipotesi sul tappeto. Nessuna delle quali ci salva da una profonda voglia di andare a nasconderci da qualche parte.

Ipotesi numero 1 – Uno strano televoto.
La lobby degli amici degli Amici potrebbe aver avuto la meglio.
Lo scorso anno vinse Marco Carta, proveniente dal talent show di Canale 5, e tra gli ospiti c’era Maria de Filippi. Quest’anno, dopo essere stato eliminato e ripescato, vince Valerio Scanu, identica provenienza, e tra gli ospiti dell’Ariston c’è stato Maurizio Costanzo. E’ la perfetta consacrazione di Raiset, anzi di Mediarai: un mostro televisivo unico, nel quale il biscione brianzolo sta lentamente stritolando il cavallo di viale Mazzini. Quest’anno, poi, la controprogrammazione di Mediaset era stranamente inesistente. Tra le altre coincidenze, da segnalare che Carta è di Cagliari e Scanu della Maddalena: loro sono sardi ma noi non siamo sordi.

Ipotesi numero 2 – Il baratro.
La seconda ipotesi è ancora più inquietante: il televoto si è svolto regolarmente e riflette le reali preferenze dei telespettatori. Sanremo si guadagnerebbe sul campo l’incoronazione a “venerato maestro”, se non a livello musicale, almeno a livello sociologico e culturale, mostrandoci in tutta la sua arretratezza un Paese che vota esattamente come televota, ispirandosi a uno stantio conservatorismo musicale e politico, preda di rigurgiti nostalgici monarchici.
Un’Italia che non investe in ricerca, che non guarda al futuro, rifiutando qualsiasi tentativo di innovazione, anche nel pop, e rifugiandosi in soluzioni retoriche patriottarde e senza prospettiva. Da registrare poi la percentuale femminile di spettatori di Sanremo, vicina al 60%, che avrebbe penalizzato le bravi cantanti donne in gara (Malika Ayane, Noemi, Irene Grandi), anche nella categoria Nuove Proposte: anche in quel caso, l’interprete più convincente era una donna, Nina Zilli (che infatti ha vinto il Premio della Critica, come Malika), ma il televoto ha premiato il solito ragazzotto occhi verdi-neomelodico-napoletano.
E’ vero che poi chi compra i dischi, o scarica gli mp3, ha fortunatamente gusti diversi. Ma ci sarà sempre un blocco di almeno 10 milioni di italiani ignoranti e indifferenti al merito, alla bravura, al talento, al nuovo, incapaci di guardare avanti, sensibili solo a richiami puramente estetici o alla rassicurazione sdolcinata di ciò che già conoscono.
Leggendo tra le righe, questa è la realtà drammatica di un Paese che non sa rinnovarsi. Un Paese che non legge e che si riconosce nei testi più elementari, nelle liriche più sbiadite e nelle assonanze più consunte. Ecco perché il Festival restituisce fedelmente l’immagine di un’Italia, che a volte dimentichiamo, meglio dell’Istat, meglio del Censis, meglio di un’indagine demoscopica. Ecco perché, parlando di Sanremo, non parliamo purtroppo solo di canzonette.

domenica 14 febbraio 2010

Zelig: non chiamiamola satira


La foto con Di Pietro e Contrada. Di Pietro che, subito dopo, approva per acclamazione la candidatura in Campania del plurinquisito De Luca. Le lotte intestine del Vaticano e i miasmi del caso Boffo. La protezione incivile di Bertolaso. In questo periodo gira decisamente troppa merda nei ventilatori, così l’altra sera mollo senza rimpianti Ballarò e mi guardo Zelig.

Tivù fatta bene, all’antica, carrellata di monologhisti più o meno bravi, più o meno giovani (il migliore per me è Maurizio Lastrico con la sua Divina Commedia calata nella modernità). La serata scorre leggera, riuscendo a strappare persino qualche sorriso. Alla fine però mi resta una sensazione strana, come di aver assistito a qualcosa di surgelato: a parte sporadiche uscite di Enrico Bertolino, non c’era nessun riferimento all’attualità.

Faccio qualche verifica, in realtà Zelig viene registrato solo alcuni giorni prima della messa in onda. Non riferirsi all’attualità è quindi una scelta editoriale. Le battute, gli sketch e i calembour si concentrano su un repertorio di situazioni privatistico-condominiali, a metà tra la Settimana Enigmistica e le innocue barzellette anni ’60: la suocera, il vigile, l’automobile, le nozze, al massimo l’amante.


Scelta saggia per gli autori, che consente loro di rinverdire i fasti del cabaret meneghino, senza disturbare il manovratore, che poi è l’editore, che poi è il Presidente del Consiglio: subliminale camaleontismo di Gino & Michele, storici ideatori del programma, che omaggiano così lo Zelig trasformista di Woody Allen. Scelta popolare per il pubblico, che si gode una serata scacciapensieri, abituandosi utilmente a ridere senza pensare. Scelta insipida per me, che rimpiango con nostalgia i tempi di Avanzi. Quando la tv ci trattava da adulti e la satira non era stemperata in uno sterile umorismo.