L’altra sera mi trovavo a Madrid, a cena con la direttrice di un importante istituto di ricerca internazionale. Era il giorno del rinvio a giudizio di Berlusconi per cui cercavo, sul filo dell’attualità, di spiegarle l’antefatto, in particolare l’episodio della telefonata alla Questura. Lei, statunitense che vive e lavora a Francoforte, mi ha spiazzato con la sua mentalità anglo–tedesca: “So what?”
Ovvero: se anche fosse stata la nipote di Mubarak, cosa sarebbe cambiato? Se aveva rubato, avrebbe comunque dovuto pagare il suo conto con la giustizia. Un passaggio logico elementare in una comunità repubblicana civile diventa un affascinante esotismo giudiziario in una repubblica delle banane come la nostra.
Abituati come siamo a considerare parentele e raccomandazioni come utili lasciapassare per scroccare posti e prebende, le stesse forme di nepotismo vengono adesso pubblicamente invocate, dal Presidente del Consiglio, addirittura come attenuanti di un reato; il tutto nell’indifferenza generale. Siccome siamo uomini di mondo, il dibattito si è immediatamente spostato al livello successivo: era davvero convinto che fosse la consanguinea dell’(ex) presidente egiziano? Stava mentendo? Che rapporti c’erano tra i due?
Ipotizziamo che la cubista Ruby Rubacuori fosse realmente la nipote di Mubarak. Tanto basta a giustificare l’improvvida telefonata? Familiari, congiunti e affini di capi di stato stranieri possono venire tranquillamente a delinquere nel nostro Paese e non si può procedere nei loro confronti altrimenti si “rischia l’incidente diplomatico”? Scaltri retroscenisti e acuti dietrologi, noi italiani tendiamo sempre a vivisezionare quel che accade dietro le quinte ignorando quanto avviene sul palco principale: nel dibattito pubblico su questa squallida vicenda abbiamo tralasciato un piccolo dettaglio. Si chiama Stato di diritto.