lunedì 27 ottobre 2014

Diciotto, diciotto, diciotto

“Diciotto…diciotto…diciotto” ripeteva ossessivamente Gigi Proietti in un suo vecchio sketch. Quello stesso numero, riferito all’articolo dello Statuto dei Lavoratori che disciplina il caso di licenziamento illegittimo (ovvero effettuato senza comunicazione dei motivi, ingiustificato o discriminatorio) di un lavoratore, riecheggia costantemente nel dibattito pubblico nazionale da una quindicina d’anni. Contestato, deriso, difeso a oltranza o santificato, l’articolo 18 risuona ormai come un disco rotto, eternamente rimpallato tra governo, imprenditori e sindacati che se ne occupano come se la sua eventuale abolizione, riforma o conferma potessero davvero mutare il nostro profilo sociale, economico, magari anche antropologico.
La difesa oltranzista di questa forma di tutela, sbandierata dal sindacato con il “solito” milione di persone in piazza San Giovanni, appare irrimediabilmente sbiadita, fotografia ingiallita di un’opposizione miope che si arrocca sulla difesa dell’esistente, senza rispondere alle sfide della modernità. Grazie a questo retrivo posizionamento ideologico, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha partita facile nel legittimarsi come “innovatore” rispetto a un blocco conservatore che non si preoccupa della competitività e, in ultima analisi, della creazione di nuovi posti di lavoro. L’iPhone vince sul gettone, punto e basta.
Ma le cose stanno davvero così? In realtà, l’abolizione dell’articolo 18 rappresenterebbe un salutare elemento di flessibilità, di per sé auspicabile se non fosse inserito in un contesto socioeconomico fortemente rigido. Facciamo un esempio: se oggi il sig. Rossi perdesse il lavoro, potrebbe ritrovarlo in una città diversa. Se il sig. Rossi avesse comprato casa nella prima città, sarebbe costretto a venderla e ricomprarne una nuova per trasferirsi, ma questo comporterebbe una serie di oneri, tra i quali il riconoscimento di molte migliaia di euro, spesso decine di migliaia, a un notaio per perfezionare il passaggio di proprietà.
L’addio al posto fisso, che periodicamente ci viene ricordato da chi ci governa, dovrebbe allora essere accompagnato da una serie di misure che, insieme alla mobilità professionale, favorissero la mobilità fisica delle persone sul territorio. Nel nostro esempio, se la compravendita di immobili fosse semplificata e resa meno gravosa, la domanda e l’offerta di lavoro potrebbero incontrarsi più facilmente. Questo naturalmente corrisponderebbe a una significativa riduzione degli introiti per lo Stato e per la benestante “casta” dei notai. Si tratterebbe di un danno per 5000 notai ma di un enorme beneficio per milioni di persone, oltre che per la flessibilità del sistema nel suo complesso. Del resto, già oggi in molti paesi europei i notai, per come li intendiamo noi, non esistono e gran parte delle loro funzioni viene svolta gratuitamente dall’amministrazione pubblica, magari grazie alle tecnologie dell’e-government.
In altri termini, non si può liberalizzare solo un pezzo del sistema e lasciare tutto il resto preda di incrostazioni lobbistiche sedimentate negli anni che, favorendo rendite di posizione per pochi privilegiati, bloccano l’evoluzione verso una società realmente aperta. Facciamo un altro esempio, per capirci meglio. Se il sig. Rossi, laureato in Farmacia, perdesse il lavoro che aveva presso una società farmaceutica, dovrebbe essere libero, se crede, se può e se le banche glielo consentono, di provare ad aprire una farmacia e misurarsi con il mercato. Oggi potrebbe aprire al massimo una parafarmacia, con margini di guadagno assai più contenuti e maggior rischio d’impresa, in quanto la “casta” dei farmacisti ha imposto un vincolo che corrisponde al numero massimo di farmacie che possono essere presenti su un determinato territorio, per tutelare il valore delle loro licenze, e non al numero minimo, come il buon senso e la logica di servizio pubblico (e di libero mercato) imporrebbero.
Lo stesso schema potrebbe essere applicato in ogni ambito dove imperano clientele, concorsi truccati e meccanismi distorsivi che ostacolano la meritocrazia e l’effettiva libera circolazione (professionale e fisica) delle persone: pensiamo ai tanti baroni delle mille Università, ai meccanismi di reclutamento e di selezione dei dirigenti sanitari, agli innumerevoli enti con partecipazione pubblica e così via. La battaglia contro l’abolizione dell’articolo 18 è persa in partenza se diventa l’appiglio per riportare artificialmente in vita la società del 1970, quella dello Statuto dei Lavoratori, che non esiste più. La battaglia diventerebbe invece sensata se richiamasse un’idea complessiva e coerente del futuro, una nuova organizzazione della società davvero inclusiva e liberale che si preoccupasse, da un lato di abbattere le barriere all’uscita dal mondo del lavoro ma, dall’altro, di demolire e rendere trasparenti le barriere all’entrata. Quello che serve è una riprogettazione profonda e autentica del tessuto sociale ed economico, che non si faccia condizionare da interessi corporativi, senza la quale la cruda abolizione dell’articolo 18 si riduce effettivamente a una tutela in meno per i lavoratori.