lunedì 28 settembre 2009

Giornalisti sulla carta

Libero e il Giornale scorrazzano come due pantegane nella fogna, annusando soddisfatti il dolce profumo eversivo dell'illegalità. Stavolta, all'unisono, istigano esplicitamente allo sciopero fiscale i loro lettori, evidentemente già ben disposti in tal senso, invitando a non pagare il canone Rai.

(Non) ripaghiamoli con la stessa moneta. La prossima volta che andate in edicola, distraete il titolare con un pretesto qualsiasi: le figurine per il nipotino, un'indicazione stradale, un numero arretrato di una rivista introvabile. Mentre l'edicolante cerca di accontentarvi, voi allungate il braccio e -oplà- vi prendete la vostra copia a sbafo del Giornale o di Libero. Meglio se di tutti e due insieme.

Non possiamo arrivare a chiedervi di leggerli, sarebbe troppo. Ma una volta in vostro possesso, possono essere molto utili: l'editoriale di Feltri è ottimo per pulire i vetri di casa, il fondo di Belpietro proteggerà per bene le vostre uova fresche.

Se non riuscite a trattenere la curiosità morbosa e volete proprio leggerli, o almeno dargli un sbirciatina, chiudetevi in bagno con i due quotidiani. Siamo sicuri che saprete farne l'utilizzo migliore.

martedì 15 settembre 2009

Non aprite Porta a Porta

Essere iscritti all'Albo dei giornalisti vuol dire essere un giornalista?

Ciambellani, ricattatori, sputaveleni, diffamatori, adulatori, cacasotto, spie, intrallazzatori, servi sciocchi. A parte le solite eccezioni, i pennivendoli italici stanno raggiungendo il livello fognario. Adeguandosi peraltro alla media etica del Paese.

Ballarò spostato, Matrix rinviato, Annozero senza contratti e senza spot, Report senza tutele legali. Il 19 settembre si scende in piazza per la libertà di stampa. E poi? Presumibilmente, tutto come prima. Come quando cacciarono Biagi per sostituirlo con "Max & Tux", la massa dei sedicenti giornalisti non fiata. Nessuno sciopero, nessuna azione clamorosa, nessuna protesta.

Nella surreale conferenza stampa con Zapatero di qualche giorno fa, a proposito della domanda scomoda di un giornalista del Paìs, Berlusconi si è rivolto al premier spagnolo con queste parole: "Ti ho rubato del tempo ma era la domanda di un TUO giornalista". Ha detto proprio così: TUO. Un piccolo aggettivo possessivo che rivela una concezione proprietaria della stampa.

Deve essere così che l'Emilio Fede di Rai Uno saluta Berlusconi nei biglietti d'auguri a Natale: "TUO Bruno Vespa".

mercoledì 9 settembre 2009

Bongiorno Italia


“Amici ascoltatori allegria!” Per molti anni i giovedì sera degli italiani sono stati caratterizzati dagli implacabili cronometri dei quiz di Mike, dalle sue domande scandite, dai suoi concorrenti onniscienti: Lascia o raddoppia? e Rischiatutto, più che semplici programmi, erano autentici rituali collettivi.

Come ricordano molti giornali di oggi, la sua tv è morta prima di lui. A un certo punto, le barriere all’ingresso del piccolo schermo si sono improvvisamente inabissate: il talento artistico, o almeno una conoscenza enciclopedica di determinati argomenti, hanno ceduto il passo a pettorali e chiappe esibiti con carnale orgoglio.

I concorrenti di Mike non potevano più essere “personaggi” nell’Italia dei reality e, con loro, anche Mike ha cominciato piano piano a scomparire dai teleschermi. Prima trionfante su Canale 5, poi nello sgabuzzino di Rete 4 con programmi minori, poi l’esclusione dal video. Nel frattempo, i quiz si sono sempre più semplificati, le domande banalizzate, le risposte suggerite, l’aiutino da casa: così vuole la (presunta) democratizzazione dell’etere - celebrata da favolette multietniche come The Millionaire.

A proposito di democrazia, siamo costretti a domandarci se non solo la storia della tv, ma anche la storia d’Italia sarebbero state le stesse senza Mike Bongiorno. Il conduttore diede infatti un contributo determinante all’affermazione di Canale 5, nel 1980, con grandi successi di ascolto: fu il primo a lasciare la Rai per Berlusconi, che allora rappresentava poco più di un consorzio di tv locali (ma era già in grado di pagare 10 volte il cachet che il servizio pubblico offriva alle proprie star).

Trasmissioni come Bis e Superflash consentirono al Biscione di surclassare la concorrenza di Italia Uno (che era di Rusconi) e di Retequattro (che era di Mondadori): Berlusconi le acquistò dai proprietari rispettivamente nel 1982 e nel 1984, iniziando una concorrenza serrata con la Rai, che lo ha condotto dove sappiamo.

Le logiche con cui il buon Mike ci vendeva innocui prosciutti e minestre in busta sono diventate sistema, applicate ai partiti, alle istituzioni, al Paese. Infatti nel 1994, al momento della discesa in campo, lo stesso Mike raccomandò di votare per Berlusconi, come fosse uno dei suoi amati prodotti.
Solo in tarda età, quando lo accantonarono bruscamente in base alle logiche del profitto da lui stesso esaltate, probabilmente si accorse che l’ultimo prodotto che gli avevano affidato, quello politico, era in realtà un prodotto marcio.

Era troppo tardi: la commistione tra storia della tv e storia d’Italia era ormai un processo avviato, folle e irreversibile. Sta a noi cercare di uscirne anche se nessuno sembra conoscere la risposta e il tempo, forse, è già scaduto.

PS La migliore battuta compare sul Riformista di oggi: “E’ morto l’unico amico di Berlusconi che faceva domande”.

domenica 6 settembre 2009

La nostalgia non è più quella di una volta

Adoravo godermi in tv gli spezzoni dei vecchi varietà.
Immaginavo famiglie intimamente riunite davanti al teleschermo, dolcemente accompagnate dallo swing elegante di Lelio Luttazzi, dall’ironia di Walter Chiari o Franca Valeri, dai virtuosismi di Mina. Un film è pensato per durare ma la televisione è, per sua natura, instabile: un prodotto legato al presente, fragrante ma caduco, in quanto legato alla fruizione di una sera. Ecco perché quei vecchi materiali in bianco e nero mi affascinavano tanto: miracolosamente sottratti all’oblio e restituiti alla memoria collettiva, in un certo senso facevano autenticamente viaggiare nel tempo.

Anche quest’estate, come al solito, gli archivi Rai sono stati saccheggiati a piene mani, confermando nel servizio pubblico un’irresistibile vena creativa nella costruzione dei palinsesti. A differenza che nel passato, tuttavia, il magnetismo che esercitavano quelle immagini per me si è come dissolto. Svanito. Come mai? Ho provato a darmi qualche spiegazione.

1. NOIA E CONTAMINAZIONE
Gli spezzoni tendono inevitabilmente a ripetersi e anche il più strepitoso, alla dodicesima visione, comincia a scricchiolare. Le riproposizioni dei varietà classici hanno quindi cominciato a essere contaminate con segmenti di insulsa tivù contemporanea, già priva di qualsiasi interesse in diretta, figuriamoci in replica.

2. MANCATA CONTESTUALIZZAZIONE
I contributi vengono presi e trasmessi senza neanche uno straccio di sovrimpressione che ricordi il titolo della trasmissione, l’anno di messa in onda e i nomi dei protagonisti. Che spesso i più giovani non riconoscono e i più anziani non ricordano.

3. MALINCONIA
Fino a qualche tempo fa, mi illudevo di poter rivivere i fasti dei varietà di quegli anni; ogni tanto, gli eventi firmati Celentano o Fiorello facevano ben sperare. Oggi la programmazione è omologata e sciatta, priva di talenti e uniFORMATa. Il contrasto con quelle inarrivabili produzioni ben scritte, lungamente provate ed elegantemente professionali degli anni ’60 e ’70 è talmente stridente da produrre inevitabilmente un senso di malinconia catodica.

4. CONCORRENZA
Il TG1, che precede Supervarietà, è spesso assai più esilarante.

Come diceva Simone Signoret, “la nostalgia non è più quella di una volta”.

venerdì 4 settembre 2009

I centri commerciali sono di sinistra

Domenica d’agosto, Roma deserta. Tornati dalle vacanze, il frigo è vuoto e fa un caldo beduino. Vicino casa ha aperto un enorme centro commerciale. Uno di quelli che la vulgata progressista-snob definisce “mostri”. Ci andiamo. Troviamo un’oasi di aria condizionata, negozi aperti e riforniti, ristoranti. Ci rifocilliamo, facciamo la spesa e, visto che c’è un parrucchiere unisex aperto, ci tagliamo pure i capelli.

I centri commerciali in genere vengono demonizzati, in nome delle “botteghe di una volta”. Peccato che, quella domenica, bottegai e artigiani stessero (giustamente) con la pancia all’aria su qualche spiaggia. Mentre nel “mostruoso” centro commerciale centinaia di commessi lavoravano a pieno ritmo. Offrendo ristoro e frescura a quanti, persi per vari motivi nella calura cittadina, non avrebbero altrimenti saputo a che santo votarsi.

Famiglie con bambini, anziani, giovani coppie appena tornate dalle vacanze trovano in questi giganteschi shopping mall risposte concrete alle loro esigenze di vita. Quelli che li detestano in genere abitano in centro, d’estate stanno a Capalbio e magari hanno la filippina per fare la spesa. Oppure sono contrari ideologicamente. La distanza delle cosiddette élites dalle esigenze del popolo, della classe media, dell’uomo della strada, insomma della gente, è sempre più siderale.

Chiusi nel loro autocompiacimento onanista, non si accorgono che le persone invece apprezzano in massa le nuove soluzioni che il mercato offre. Le offerte si sommano, non si elidono, se quelle vecchie hanno la forza per sopravvivere. Lasciare etichettare questi posti come “non-luoghi”, secondo una presuntuosa dottrina di antropologia culturale, o peggio come luoghi “di destra”, è l’ennesima inerzia mentale di una minoranza miope. Sempre più incapace di comprendere la modernità, preferisce rifugiarsi in qualche nicchia amniotica anziché misurarsi con la vera sfida: cercare di coniugare la qualità con la quantità. Più o meno lo stesso errore commesso, trent’anni fa, con le televisioni, commerciali anche quelle. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. O almeno di quelli che ancora riescono a vedere.