martedì 31 agosto 2010

Lessico (poco) famigliare

The vehicle will be towed away”. La scritta campeggia sulle porte dei garage statunitensi, per dissuadere eventuali automobilisti indisciplinati da una sosta selvaggia. Se ti fermi lì davanti, la tua macchina se la portano via, non c’è molto altro da aggiungere. L’equivalente sulle autorimesse nostrane è il misterioso “passo carrabile”. Il passo fa venire in mente allegre marcette di reparti militari o innevati valichi alpini; carrabile è un aggettivo sibillino, fa pensare agli autocarri o ai cingolati dell’immediato dopoguerra più che ai normali autoveicoli. Immagino lo sconcerto di un automobilista straniero di fronte all’oscurità semantica di quella segnalazione stradale.

L’imperscrutabile prosa della nostra burocrazia appare goffa se confrontata al pragmatismo lessicale americano: anziché semplificare la vita quotidiana, il nostro impacciato legislatore sembra indugiare in oziose attività speculative. Il fenomeno si manifesta anche con i mezzi più scenografici, come i cartelloni elettronici che precedono, a Roma, le zone a traffico limitato. Quando compare la scritta “varco attivo”, curiosamente significa che il passaggio non è consentito.

Già la parola “varco” indica un passaggio per lo più angusto e poco agevole; l’automobilista capitolino deve quindi “aprirsi un varco” nella giungla urbana, quasi fosse nella foresta pluviale. Ma, nella lingua italiana, se il varco è attivo, vorrebbe dire che, in teoria, ci si può passare: altrimenti che razza di varco è? Ricordo il mio insegnante di italiano al liceo che ci ammoniva: “C’è un solo modo di scrivere: chiaro. Chi scrive oscuro è ignorante o è imbroglione”. Viene persino il dubbio che l’indecifrabile burocratese, giocando sulla scarsa chiarezza dell’informazione, possa aiutare a fare cassa con qualche multa in più.

La distanza dei cittadini dall’apparato pubblico ha certamente origini storiche molto complesse, che spesso fungono da alibi per perpetuarla. La scarsa trasparenza amministrativa consente ai molti furbi di passare inosservati, approfittando poi di scappatoie, interpretazioni poco univoche e ricorsi che intasano i tribunali. La celebrata “semplificazione“ del linguaggio politico degli ultimi anni non mi sembra si sia tradotta in un parallelo appianamento del lessico presente nella modulistica, nella dichiarazioni, nella segnaletica.

Il ricorso a un linguaggio astruso e poco comune sembra garantire una rendita di posizione a enti e ministeri che, solo in questo modo, possono rimanere unici sacerdoti, depositari dell’interpretazione autentica delle scartoffie che producono. La modernità di un Paese dipende anche dalla sua capacità di comunicare efficacemente con i cittadini, che non devono essere costretti a “obliterare” il biglietto della metropolitana quando potrebbero, semplicemente, timbrarlo.

domenica 29 agosto 2010

Lo spettacolo della deformità

Quest’estate a San Francisco, nella mitica libreria City Lights di Lawrence Ferlinghetti, culla della beat generation, mi sono imbattuto in Spectacle of Deformity – Freak Shows and Modern British Culture, interessante volume che indaga sugli anni che vanno dal 1847 all’inizio del ventesimo secolo, epoca d’oro dei freak show nel Regno Unito. Secondo la professoressa Nadya Durbach, l’esposizione di corpi deformi e mostruosi, in voga ai tempi, non va liquidata come fenomeno marginale o semplicemente voyeuristico.

Già dal medioevo, la nascita di esseri mostruosi veniva interpretata come un segno divino, per servire un particolare scopo politico, morale o religioso. Nei secoli successivi, l’esposizione live di elephant men, donne barbute, nani, giganti e gemelli siamesi, coniugava esigenze scientifiche e spettacolarizzazione, crescendo nel diciannovesimo secolo di pari passo con il diffondersi della rete ferroviaria: trasportati in treno, i mostri andavano in tournée.

I freak show raggiunsero la loro apoteosi nell’Inghilterra vittoriana ed edoardiana, testimoni repellenti di più ampie ansietà culturali legate all’instabilità del corpo: i freak erano mostruosi in quanto potevano essere allo stesso tempo maschi e femmine, bianchi e neri, adulti e bambini, umani e animali. Costituivano un rifiuto implicito di accettare l’ordine naturale, a sua volta legato all’ordine sociale, che li rendeva spaventosi e politicamente dirompenti.


In breve tempo i freak divennero un fenomeno commerciale, forma di intrattenimento a buon mercato per i sabati della nascente middle class. Offrendo il biglietto a metà prezzo per i bambini, i manager del circo Barnum, tra i più attivi organizzatori di freak show, suggerivano che si trattava di un rispettabile intrattenimento per famiglie e scuole. Oggi tutto questo appare assurdo e se ci fosse un uomo con tre gambe o un bambino con due teste a nessuno verrebbe in mente di portarlo in giro per le piazze.


Ma siamo proprio sicuri di essere totalmente vaccinati? I reality e i talent che affollano le nostre piazze catodiche sono disgraziati recipienti di persone culturalmente deformi, bambini canterini, belle e bestie, record disgustosi, tette siliconate e pettorali gonfiati dagli steroidi.

A parte il cosiddetto intrattenimento, la stessa vita politica si è deformata fino ad assumere connotati mostruosi. Per esempio, domani parte il nuovo Tg su la7 diretto da Enrico Mentana: il fatto stesso che stiamo tutti aspettando, per avere uno straccio di informazione tv decente, il lavoro di uno che ha lavorato prima sotto l’egida socialista, poi berlusconiana per molti anni, la dice lunga sul grado di servilismo cui sono arrivati tutti gli altri. Adulatori, cortigiani, trombettieri del potere che si spacciano per giornalisti, pronti a edulcorare, nascondere, mediare, compiacere anzichè informare: è questa la moderna galleria dei freak, i veri mostri dei nostri anni.

Speriamo in Mentana per avere un simulacro di informazione indipendente come speriamo in Fini per un simulacro di opposizione: un postfascista che ci deve, o dovrebbe, liberare dal neofascismo incarnato da Berlusconi. Come in una trama di fantapolitica da incubo, il mostro può essere battuto non dagli inermi avversari, bensì solo da chi ne ha condiviso a lungo le caratteristiche: ex alleati, ex dipendenti, ex moglie. Per sconfiggerlo occorre combatterlo dall’interno, come avvenne con il cavallo di Troia (ripensandoci, quest’esempio calza a pennello).

I freak show dell’Inghilterra vittoriana aiutarono ad articolare compiutamente i significati culturali connessi al concetto di alterità, chiarendo cosa voleva dire essere inglesi in un momento storico chiave per la costruzione di un’identità moderna e di un’ideologia imperialista. Forse tra un secolo una ricercatrice scriverà un libro sui mostri e sulle puttane che, a tutti i livelli, popolano l’Italia di oggi; forse dovremo aspettare allora per prendere finalmente le distanze dalla nostra postribolare vita pubblica e capire cosa significa essere cittadini e non sudditi di Sua Maestà.