sabato 23 gennaio 2010

Rubavatar


L’altra sera su Sky, in occasione dell’uscita nella sale di quel capolavoro che è Avatar, hanno trasmesso alcuni vecchi film di James Cameron. Pochi sanno che il geniale regista canadese girò il suo primo lungometraggio proprio a Roma nel 1981. Con il proverbiale fiuto che abbiamo per i nuovi talenti, dopo appena cinque giorni di riprese il produttore decise di girare il resto da solo. Il film, Piraña paura, venne fuori orribile. Ma le analogie tra l’Italia e la successiva produzione artistica di Cameron non finirono lì.

Titanic, in questi giorni di celebrazioni craxiane, concretizza plasticamente i vecchi partiti politici che cozzano contro l’iceberg (poi scioltosi) di Mani pulite, cominciando ad affondare mentre l’orchestrina ancora suona in prima classe. In Terminator, gli eroi della resistenza vengono attaccati da feroci cyborg capaci di ingannevoli metamorfosi: trasformisti e anche un po’ revisionisti. Sempre in Terminator, assistiamo alla mascolinizzazione di figure femminili combattenti (la Bindi? La Bonino?) e viceversa (il caso Marrazzo e, più in generale, la transpolitica).

Infine, in Aliens, scopriremo che i mostri si sono moltiplicati e hanno ucciso tutti. Così, trivellati dalle True Lies, bugie così perfette da sembrare vere, sprofondiamo negli Abyss. Mentre ormai il pianeta Pandora è popolato interamente dagli Avatar dei ladri della Prima Repubblica, molto più alti, forti e duri da eliminare degli originali: i Rubavatar.

Non siamo scienza, siamo fantascienza.

domenica 10 gennaio 2010

Signora badi ben, che sia fatto di Moplen


Nel 1963 un chimico di Imperia, Giulio Natta, vinse il Nobel per la chimica per la scoperta del polipropilene, ottenuto in laboratorio nel 1954, volgarmente detto plastica. La commercializzazione avvenne a cura della Montecatini che, con il nome di Moplen, realizzò con grande successo scolapasta, vasche, secchi, tubi di scarico e sifoni. Questi e altri suppellettili domestici furono prodotti grazie al ritrovato, indeformabile e indistruttibile, capace di assumere qualsiasi colore e che entrava, con i caroselli di Gino Bramieri, nelle case e nelle abitudini degli italiani ("E mò e mò e mò... Moplen!", "Signora badi ben, che sia fatto di Moplen!").

In quegli anni, ancora lontani da consapevolezzze ecologiste e stringenti paradigmi bio, gli oggetti fatti di Moplen erano sinonimo di praticità, progresso, industria. La plastica non era associata, come avviene oggi, a qualcosa di artificioso, finto e antiambientale. Dopo la parentesi degli anni '70, che sostituì la plastica col piombo, il miracoloso polimero si prese la rivincita col riflusso del decennio successivo; ma fu qualcosa di profondamente diverso.

La plastica non era più quella innocua e colorata degli scolapasta: divenne metafora di un'epoca, gli anni '80, che in Italia non è mai finita. Con la chirurgia, la plastica entra nelle facce delle persone; da lì, in qualche modo, trova un varco per entrare nelle teste, come in un film di Cronenberg. Da alfiere del miracolo economico a principio rimodellante di zigomi e pensieri, plasmati e fissati per l'eternità.

Dopo aver ricoperto con onore l'utile ruolo di materiale principe dei tinelli nazionali, la plastica scende finalmente in campo e fa il suo ingresso in politica. I vecchi partiti, che sembravano di ferro, si sciolgono al fuoco di Tangentopoli; i partiti liquidi dopo un po', inevitabilmente, evaporano. La plastica, invece, come sappiamo è indistruttibile e può durare un secolo, assumendo forme sempre diverse, nuove ed attraenti, accompagnata da tormentoni, jingle e caroselli. Il genio italico, dopo aver ideato la plastica, ha plastificato le idee. Non pretendiamo un altro Nobel, ma almeno un Oscar lo meritiamo tutto.