giovedì 17 marzo 2011

Sindrome giapponese

Non riesco a staccarmi dalla Situation Room che, sulla CNN, aggiorna in tempo reale sul Giappone. I tranquilli villaggi di pescatori e le violente devastazioni che li hanno sconquassati mi fanno tornare in mente il Giappone disegnato della mia infanzia, piena di cartoni animati popolati di orribili mostri che, improvvisamente, distruggevano tutto, come nel peggiore tsunami. Poi però arrivava Mazinga (ma, in giapponese, significa “demonio” e jin significa “dio”: può essere usato per il male e per il bene) che li sconfiggeva, rimettendo le cose al loro posto e facendo trionfare la Giustizia e la Pace.

L’incubo nucleare di Hiroshima e Nagasaki aveva prodotto, nella fantasia post-bellica degli anime nipponici, la nascita di creature geneticamente mutate, anomali e deformi, come Godzilla, che calpesta intere città uccidendo esseri umani come mosche. Successivamente, la fiducia nel progresso e nelle proprie capacità tecnologiche aveva accompagnato l’epopea del Giappone terza potenza economica mondiale: sofisticati robot giganti, pilotati dall’uomo, superavano qualsiasi sfida, confrontandosi con i Micenei, epigoni distorti del mito del Colosso di Rodi, esseri metà umanoidi e metà bestie, assurdi, disfunzionali e asimmetrici, con la testa sulla pancia o addirittura sul pomello di un bastone.

Oggi nel nostro Paese è (o dovrebbe essere) una giornata di festa. Almeno per un giorno, lasciatemi immaginare che, al contrario di un’Italia sazia e impaurita, incapace persino di scegliere la data per celebrarsi (confusa tra 17 marzo, 25 aprile, 2 giugno, 20 settembre e 4 novembre), l’Impero del Sol Levante stia trovando, da qualche parte, la forza per rialzarsi. Almeno oggi, lasciatemi sognare che, dal laboratorio del Monte Fuji (che poi nel cartone si chiamava Centro Ricerche sull’Energia Fotoatomica) o dalla Fortezza delle Scienze (altro nome paradigmatico), il Grande Mazinga si stia librando in volo sul cielo viola e marrone di Fukushima, giusto in tempo per sconfiggere l’Imperatore delle Tenebre.

domenica 6 marzo 2011

Sana e robusta prostituzione

A pochi giorni dalle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, si consuma la vendetta dell’Impero austro-ungarico: Ruby Rubacuori è stata una delle ospiti più ammirate del ballo delle debuttanti di Vienna, ospite (manco a dirlo) di un ricchissimo imprenditore locale. Qui è in compagnia del celebre J.R. e la foto è emblematica: rappresenta l’avventuroso inizio e l’inglorioso declino dell’epopea berlusconiana.

Da “Dallas” a “Dalla!”, dalle maggiorenni minorate alle minorenni maggiorate: gli argomenti trattati nel telefilm (ricchezza, sesso, intrighi e lotte senza esclusione di colpi per il potere) sono passati direttamente dal ranch del Texas alla villa di Arcore. Una storia che per noi è diventata la Storia, lo scivolamento progressivo dalla fiction degli anni Ottanta alla realtà dei giorni nostri. Almeno “Dallas” era una serie. Qui le cose serie sono rimaste ben poche.

sabato 5 marzo 2011

Dietro la porta


Parigi. In un elegante palazzo dell’alta borghesia, abitato da ministri e maîtres à penser, la portinaia Renée osserva dalla sua guardiola il quotidiano incedere di quell’umanità fatua e benestante, vicina eppure lontana. Finta teledipendente, in realtà colta e curiosa autodidatta, la concierge si nasconde dietro gli aculei di una sciatteria esibita e scorbutica, pur di compiacere le aspettative classiste dei suoi facoltosi condòmini, che mal sopporterebbero una custode con insidiose pretese intellettuali.

Il riccio, tratto dal bel romanzo di Muriel Barbery, smaschera così l’ipocrisia radical-chic di un ceto dirigente che si riempie la bocca di progresso sociale ma nasconde le cicche sotto il tappeto e preferisce socchiudere la porta dietro di sé piuttosto che far varcare l’uscio di casa propria dalla corpulenta esponente del proletariato del rez-de-chaussée. Doppiezze e piccole arroganze vengono colte da Paloma, dodicenne geniale che vive con malessere il perbenismo della sua famiglia di origine e vede la vita con altri occhi, quelli di una vecchia videocamera con cui viviseziona prepotenze e conformismi di quel mondo ovattato.

I soli lampi di umanità e cortesia, nel grigiore parigino, arrivano dal nuovo inquilino Kakuro Ozu, anima gentile e ricco signore, refolo di grazia orientale in una società francese sempre più decrepita e ripiegata su sé stessa. Gli basta una battuta per scoprire la reale indole di Renée che finalmente, a cinquantaquattro anni, può contare di nuovo sul conforto di un sorriso complice e sull’affetto della stessa Paloma, alla ricerca di un’esistenza più sincera. I gatti, in questo microcosmo condominiale, rispecchiano deliziosamente i caratteri dei loro padroni: selvatico quello della portinaia, altezzosi e viziati quelli della famiglia borghese, agili ed eleganti quelli del manager giapponese.


La vita comincia finalmente a filtrare dalle persiane di quel piano terra. Tra Anna Karenina e un atrio da spazzolare, la posta da distribuire e una tavoletta di cioccolato, Renée esce a passeggio con la bambina e, come in una sinistra profezia, le dice di stare attenta ad attraversare la strada. Non si vergogna più del piacere di leggere e fantasticare: per la prima volta, la riservata portinaia dimentica aperta la porta della sua tana-biblioteca. Era finalmente pronta ad amare.


Film bello, profondo e delicato, anche se avrei preferito una conclusione più confortante, che incoraggiasse l’insolita e virtuosa ascesa sociale e umana di una lavoratrice che invece, appena ha osato salire al quinto piano, ha visto il suo destino marchiato da una lavandaia scontrosa. Quanto sarebbe stato dolce un finale sospeso, con lo strano incontro di quelle tre solitudini in incognito, unite dall’ironia, dalla curiosità, dall’anticonformismo. Segnate dalla voglia di uscire per un po’ da quella maledetta boccia di vetro come è riuscito a fare, alla fine, soltanto l’eroico pesce rosso.