domenica 12 dicembre 2010

Caro Mario,


Caro Mario,
proprio mentre i soliti ignoti della tv profanavano uno dei tuoi titoli più geniali, riducendolo all'inutile giochetto serale, stanco e ripetitivo, tu, come sempre, chiudevi il tuo ultimo ciak, prima dei titoli di coda. Un finale amaro e sferzante, beffardo e liberatorio, come quelli cui ci avevi abituato nei preziosi bassorilievi dell’Italia che fu (e che fummo).

Avevi immaginato così la tua lapide: “Non andò mai alle Maldive”. Infatti sei sempre rimasto qui, tra Viareggio e il rione Monti, lontano dalla facile tentazione di “andare via perché …”: ostinato e cattivo nel raccontare gli antieroi vigliacchi e scansafatiche, allergico alla retorica, quindi profondamente e autenticamente patriottico.


Le storie rappresentate oggi sulla scena non sono più corali come quelle che firmavi, popolate di primattori e comprimari che condividevano idee e tessitura: adesso il protagonista è uno solo, il suo nome in ditta campeggia solitario e autoreferenziale, le idee sembrano sparite e le gambe sulle quali dovrebbero camminare ormai atrofizzate.


Adesso che la realtà è andata oltre le tue visioni più fosche, ci lasci da soli in compagnia di quest’armata Brancaleone: hai raggiunto Alberto, Vittorio, Marcello e gli altri tuoi cari, fottutissimi amici e, visti da lassù, dobbiamo sembrarvi dei borghesi piccoli piccoli, sempre presi in quest’eterno duello, questa grande guerra, tra guardie e ladri. Mi piacerebbe considerarvi amici miei ma, inevitabilmente amaro, il finale mi ricorda, caro Mario, che tu sei tu e che noi non siamo un cazzo.

domenica 7 novembre 2010

Gli ultimi giorni

Le formazioni e le fondazioni che si affacciano sulla scena politica nazionale, da Fini a Montezemolo, si fregiano nella loro denominazione della parola “futuro”. Ma non può esserci futuro senza la conoscenza, il rispetto e la valorizzazione del passato, specie in Italia. Il crollo dell’Armeria dei Gladiatori a Pompei testimonia una semplice verità: ciò che siamo siede sempre accanto a noi. E prima o poi presenta il conto.

La Schola armaturarum juventis pompeiani, la palestra degli atleti di Pompei, aveva resistito al Vesuvio, al Medioevo, alle guerre e al climate change, ma di fronte a Bondi e Bertolaso proprio non ce l’ha fatta e le sue macerie, come la vicina monnezza di Napoli, sono la più possente metafora visiva del collasso morale, politico e culturale di una classe dirigente interessata a ben altri fori. I continui tagli alla cultura operati dal commercialista Tremonti e la gestione dissennata dei pochi fondi disponibili lasciano allegramente marcire il più grande patrimonio artistico del mondo, tra un festino e un altro.

La colpa adesso sarà attribuita alle infiltrazioni della pioggia, fenomeno nuovo e imprevedibile, e l’antica saggezza popolare saprebbe già come rispondere, qualificando il governo in modo molto pertinente. Da decenni non solo non costruiamo niente di bello per le nuove generazioni, ma non riusciamo neanche a conservare decentemente quello che abbiamo ereditato: le spalle dei giganti si piegano sotto il peso dei troppi nani. Non osiamo pensare poi se il crollo fosse avvenuto in orario di visita, con custodi, turisti e scolaresche.

A proposito di sepolture, ieri sera il Tg1 ha pensato, come al solito, di seppellire nella scaletta la notizia scomoda dello sgretolamento di Pompei, dopo il solito delitto di Avetrana (quattro servizi), il Papa, Fini e Bersani. Rimaniamo in fiduciosa attesa di una coraggiosa inchiesta di Minzolini che faccia luce sulle responsabilità del crollo, aiutando gli scorati telespettatori ad orientarsi tra sovrintendenti, commissari e protezione civile che si sono alternati nella “gestione” dell’area, pronti adesso al solito balletto.

Come sappiamo, i successi hanno tanti padri (ultimamente, uno in particolare) ma gli insuccessi sono sempre orfani. La colpa sarà quindi dell’incuria complessiva, dell’andazzo generale, di un appaltatore, della camorra, degli smottamenti di un terrapieno, della pioggia, degli alieni. Sono proprio lontani i tempi dei gladiatori, che affrontavano i loro nemici dopo durissimi addestramenti e pagando personalmente le loro sconfitte. Oggi la loro memoria è affidata a Bondi: mentre perdeva tempo scrivendo improbabili versetti su Vanity Fair, la Domus lentamente si sbriciolava, in un Paese che ha perso il contatto con sé stesso, talmente assorbito da ciò che vorrebbe essere da dimenticare ciò che realmente è.

sabato 18 settembre 2010

Buone nuove

Le nuove tecnologie saranno nuove per l’eternità? Evidentemente, non ci siamo ripresi dallo shock culturale provocato dall’avvento di Internet: preferiamo continuare a indicarli, per inerzia, pigrizia o timore, come “new media”, quasi fossero ancora agli albori, anziché ammettere che la rete è indispensabile nella nostra vita quotidiana, ci offre un’informazione “ambientale” e diffusa, modificando percezioni e modi di pensare.

Per esempio, sul mio iPad, sottile e leggero, davanti al caffè mattutino leggo molto comodamente i giornali che ho sottoscritto (inclusi gli approfondimenti e i contenuti multimediali connessi agli articoli, oltre ad arretrati e allegati, che posso archiviare a piacimento). Se dovessi abbonarmi alle corrispondenti versioni cartacee, le poste consegnerebbero il quotidiano a mattina inoltrata, quando sono già in ufficio. Esistono servizi di corrispondenza privati che consegnano la stampa entro le sette davanti all’uscio, ma avrei dovuto consegnare le chiavi del portone a sconosciuti e l’amministratore del condominio era contrario. Le “nuove” tecnologie consentono quindi di esercitare al meglio, liberandoci da vincoli logistici e con connotazioni sensoriali e tattili quasi ludiche, un rituale antichissimo come la lettura del quotidiano, indicata già da Hegel come “la preghiera del mattino dell’uomo moderno”. Altro che novità: il primo esempio di quotidiano, inteso come pubblicazione giornaliera con resoconto degli avvenimenti politici e di attualità, risale al 59 a.C. quando a Roma Giulio Cesare istituì gli Acta Diurna, che venivano affissi nei luoghi pubblici.

Esempio numero 2. Scorrendo il palinsesto di Sky sull’iPhone, mi imbatto spesso in film che mi piacerebbe vedere, ma sono spesso in giro quando lo scopro. Con il provvidenziale pulsante “Registra”, tornando a casa trovo il film in alta definizione, perfettamente registrato sull’hard disk del mio decoder. Niente costi aggiuntivi, né dvd da riportare al videonoleggio, né download illegale con violazione dei diritti d’autore e (spesso) discutibile qualità audio/video delle pellicole scaricate.

Infine, nel mio quartiere ha aperto da poco una libreria Mondadori; non ho resistito alla tentazione di farci un giro. Due intere pareti erano tappezzate da blockbuster insulsi e qualche romanzo tappabuchi; interi settori dedicati a volumi sul barbecue perfetto, su come spulciare il bassotto o sui Gormiti. La striminzita sezione politica era ovviamente stata depurata della copiosa produzione saggistica critica nei confronti del Cavaliere, mentre faceva bella mostra di sé L’amore vince sempre sull’odio, con la copertina tricologica strategicamente piazzata ad altezza d’occhio come alla Esselunga. L’idea che qualcuno decida per me cosa devo e non devo leggere mi irrita; esco senza salutare e mi dirigo a passo spedito verso i tavolini di un bar. Panino, spremuta e torno su internet: per 0.79 € c’è un nuovo bellissimo aggregatore di news e poi ho voglia di rintracciare un libro introvabile. Su Amazon.

domenica 12 settembre 2010

Somewhere else


Quanti film ci hanno raccontato la crisi di figli lasciati soli da genitori separati, debosciati, spesso le due cose insieme? Dai tempi di Kramer contro Kramer, uno dei capostipiti del genere, pellicola di rara profondità e delicatezza, oltre alla famiglia e'andato in crisi anche il cinema. Il risultato di questa involuzione e' il Leone d'oro a Somewhere, fotocopia sbiadita di Lost in Translation, altra regia di Sofia Coppola decisamente sopravvalutata.

Una volta il cinema si occupava della vita, oggi avviene il contrario, il cinema racconta sé stesso, come fa la tv con i reality, ma in chiave sfigata: la celluloide diventa autoreferenziale per piangersi addosso. Il film ruota attorno a un padre attore di successo con annessa vita dissoluta che, come avviene anche ai geometri (a parte la vita dissoluta), non è in grado di costruire un rapporto decente con la figlia e cerca di rimediare come può, alla ricerca del vero senso della vita (sic). Abbandonata la narrazione lineare, tutta la storia si dipana attraverso un affastellarsi di episodi, probabilmente montati da un bambino bendato come nelle estrazioni del Lotto, che dovrebbero restituirci la crisi tra i due e poi il suo parziale, malinconico superamento.

La storia ricalca l'infanzia di Sofia Coppola che, figlia del grande Francis, ha passato diversi anni dimorando tristemente in alberghi a cinque stelle e con un padre che, se l’attore protagonista e' il suo alter ego, si scopava chiunque gli capitasse a tiro. Posto che e' sempre meglio essere infelice in una suite con piscina privata al Principe di Savoia che in un monolocale a Tor Bella Monaca, la giovane regista adesso vuole rifarsi a nostre spese dei (presunti) torti subìti, ammorbandoci con uno stile lagnoso e conformista, seguendo le orme del padre. Con due piccole differenze: lui era il cinema, lei vorrebbe esserlo; lui girava, lei gira a vuoto.

Le atmosfere sordide del Padrino continuano ad avere un ruolo nella vita della piccola Coppola (nomen omen): l'italico familismo amorale, una delle radici della subcultura mafiosa qui in versione red carpet, appare come il principale atout che le ha consentito di vincere un immeritato Leone grazie al Presidente di giuria Quentin Tarantino, suo ex nella vita reale. Probabilmente la leggiadra Sofia sublimerà questa ennesima ingiustizia che la vita le ha riservato nel suo prossimo film, magari sempre ambientato in un albergo, "non-luogo" perfettamente speculare al suo "non-cinema". E anche in quell'occasione, troverà in giuria un amico di papà, o un altro ex, o un cugino, o Nicolas Cage, anche lui parte della famigghia, tutti disposti ad aiutarla con l'eterna scusa che si riserva a quelli che nella vita se la cavano così così: poverina, ha avuto un'infanzia difficile.

sabato 4 settembre 2010

Seven Up


Sette sono i colori dell'arcobaleno, i cieli dell'antichità, i colli di Roma, i continenti, le virtù, i peccati capitali, i bracci del candelabro ebraico, le meraviglie del mondo e i giorni della settimana, le note musicali, le spose (per altrettanti fratelli) e le sorelle (nel senso delle compagnie petrolifere). Per non parlare di nani e samurai, delle vite di un gatto, delle camicie sudate e degli anni di disgrazia quando si rompe uno specchio. Oltre sette sono anche i punti di share che Enrico Mentana ha conquistato su la7, dopo la prima settimana alla guida del rinnovato telegiornale della rete.

Lo studio è piccolo e anonimo, la qualità video dei servizi spesso scadente, i collegamenti in diretta quasi inesistenti, corrispondenti nessuno e inviati col contagocce. Politicamente e mediaticamente, Mentana ha davanti un’autostrada deserta; ma lui la percorre con professionale cautela, anche perché la vettura disponibile è quello che è. I mezzi sono limitati rispetto alle corazzate Rai e Mediaset e il riccioluto direttore, classe 1955, punta tutto sul suo carisma di affabulatore per l’edizione delle 20.

Una scelta proficua per gli ascolti, che hanno ormai superato il milione e mezzo di spettatori (sempre comunque a distanze siderali dal Tg1 e dal “suo” Tg5). Gli evidenti limiti tecnici del telegiornale targato Telecom vengono però compensati dall’esperienza di Mentana: un vero anchorman che si concede il lusso di “raccontare” le notizie del giorno, talvolta chiosandole con un commento, potendo contare su un patrimonio di credibilità sconosciuto ai tanti altri lettori di gobbo elettronico in circolazione.

Un telegiornale “caldo”, paradossalmente simile, solo in questo, al Tg4 di Fede: un direttore carismatico in video, pochi mezzi, ogni tanto qualche esegesi moraleggiante dei fatti. Ovviamente Mentana si differenzia dal suo antico dirimpettaio Mediaset per tutt’altra indipendenza nei giudizi espressi, ma alcune analogie formali restano.

La scaletta è confezionata rispettando l’intelligenza dei telespettatori, mette in ordine le hard news, senza infingimenti e senza “insabbiamenti”, anche se va lamentata una scarsissima presenza degli esteri. La sensazione complessiva che se ne trae è quella di un telegiornale ben fatto, ma quasi d’opinione, che riuscirà appena a scalfire gli ascolti dei due rivali alle 8 di sera; effetti balsamici potrebbero arrivare dalla probabile fine anticipata della legislatura e dalla campagna elettorale di primavera, in grado di “illuminare” il TG la7, come già avvenne a Mentana per il neonato TG5 con le elezioni del 1992.

Sono pienamente d’accordo con quanto ha scritto Curzio Maltese su Repubblica: complessivamente, un telegiornale normale, senza particolari innovazioni editoriali, né guizzi creativi, né coraggio politico. Ma in questi tempi buissimi per il giornalismo televisivo italiano, anche fare una cosa normale può avere il sapore liberatorio e inebriante della rivoluzione.

martedì 31 agosto 2010

Lessico (poco) famigliare

The vehicle will be towed away”. La scritta campeggia sulle porte dei garage statunitensi, per dissuadere eventuali automobilisti indisciplinati da una sosta selvaggia. Se ti fermi lì davanti, la tua macchina se la portano via, non c’è molto altro da aggiungere. L’equivalente sulle autorimesse nostrane è il misterioso “passo carrabile”. Il passo fa venire in mente allegre marcette di reparti militari o innevati valichi alpini; carrabile è un aggettivo sibillino, fa pensare agli autocarri o ai cingolati dell’immediato dopoguerra più che ai normali autoveicoli. Immagino lo sconcerto di un automobilista straniero di fronte all’oscurità semantica di quella segnalazione stradale.

L’imperscrutabile prosa della nostra burocrazia appare goffa se confrontata al pragmatismo lessicale americano: anziché semplificare la vita quotidiana, il nostro impacciato legislatore sembra indugiare in oziose attività speculative. Il fenomeno si manifesta anche con i mezzi più scenografici, come i cartelloni elettronici che precedono, a Roma, le zone a traffico limitato. Quando compare la scritta “varco attivo”, curiosamente significa che il passaggio non è consentito.

Già la parola “varco” indica un passaggio per lo più angusto e poco agevole; l’automobilista capitolino deve quindi “aprirsi un varco” nella giungla urbana, quasi fosse nella foresta pluviale. Ma, nella lingua italiana, se il varco è attivo, vorrebbe dire che, in teoria, ci si può passare: altrimenti che razza di varco è? Ricordo il mio insegnante di italiano al liceo che ci ammoniva: “C’è un solo modo di scrivere: chiaro. Chi scrive oscuro è ignorante o è imbroglione”. Viene persino il dubbio che l’indecifrabile burocratese, giocando sulla scarsa chiarezza dell’informazione, possa aiutare a fare cassa con qualche multa in più.

La distanza dei cittadini dall’apparato pubblico ha certamente origini storiche molto complesse, che spesso fungono da alibi per perpetuarla. La scarsa trasparenza amministrativa consente ai molti furbi di passare inosservati, approfittando poi di scappatoie, interpretazioni poco univoche e ricorsi che intasano i tribunali. La celebrata “semplificazione“ del linguaggio politico degli ultimi anni non mi sembra si sia tradotta in un parallelo appianamento del lessico presente nella modulistica, nella dichiarazioni, nella segnaletica.

Il ricorso a un linguaggio astruso e poco comune sembra garantire una rendita di posizione a enti e ministeri che, solo in questo modo, possono rimanere unici sacerdoti, depositari dell’interpretazione autentica delle scartoffie che producono. La modernità di un Paese dipende anche dalla sua capacità di comunicare efficacemente con i cittadini, che non devono essere costretti a “obliterare” il biglietto della metropolitana quando potrebbero, semplicemente, timbrarlo.

domenica 29 agosto 2010

Lo spettacolo della deformità

Quest’estate a San Francisco, nella mitica libreria City Lights di Lawrence Ferlinghetti, culla della beat generation, mi sono imbattuto in Spectacle of Deformity – Freak Shows and Modern British Culture, interessante volume che indaga sugli anni che vanno dal 1847 all’inizio del ventesimo secolo, epoca d’oro dei freak show nel Regno Unito. Secondo la professoressa Nadya Durbach, l’esposizione di corpi deformi e mostruosi, in voga ai tempi, non va liquidata come fenomeno marginale o semplicemente voyeuristico.

Già dal medioevo, la nascita di esseri mostruosi veniva interpretata come un segno divino, per servire un particolare scopo politico, morale o religioso. Nei secoli successivi, l’esposizione live di elephant men, donne barbute, nani, giganti e gemelli siamesi, coniugava esigenze scientifiche e spettacolarizzazione, crescendo nel diciannovesimo secolo di pari passo con il diffondersi della rete ferroviaria: trasportati in treno, i mostri andavano in tournée.

I freak show raggiunsero la loro apoteosi nell’Inghilterra vittoriana ed edoardiana, testimoni repellenti di più ampie ansietà culturali legate all’instabilità del corpo: i freak erano mostruosi in quanto potevano essere allo stesso tempo maschi e femmine, bianchi e neri, adulti e bambini, umani e animali. Costituivano un rifiuto implicito di accettare l’ordine naturale, a sua volta legato all’ordine sociale, che li rendeva spaventosi e politicamente dirompenti.


In breve tempo i freak divennero un fenomeno commerciale, forma di intrattenimento a buon mercato per i sabati della nascente middle class. Offrendo il biglietto a metà prezzo per i bambini, i manager del circo Barnum, tra i più attivi organizzatori di freak show, suggerivano che si trattava di un rispettabile intrattenimento per famiglie e scuole. Oggi tutto questo appare assurdo e se ci fosse un uomo con tre gambe o un bambino con due teste a nessuno verrebbe in mente di portarlo in giro per le piazze.


Ma siamo proprio sicuri di essere totalmente vaccinati? I reality e i talent che affollano le nostre piazze catodiche sono disgraziati recipienti di persone culturalmente deformi, bambini canterini, belle e bestie, record disgustosi, tette siliconate e pettorali gonfiati dagli steroidi.

A parte il cosiddetto intrattenimento, la stessa vita politica si è deformata fino ad assumere connotati mostruosi. Per esempio, domani parte il nuovo Tg su la7 diretto da Enrico Mentana: il fatto stesso che stiamo tutti aspettando, per avere uno straccio di informazione tv decente, il lavoro di uno che ha lavorato prima sotto l’egida socialista, poi berlusconiana per molti anni, la dice lunga sul grado di servilismo cui sono arrivati tutti gli altri. Adulatori, cortigiani, trombettieri del potere che si spacciano per giornalisti, pronti a edulcorare, nascondere, mediare, compiacere anzichè informare: è questa la moderna galleria dei freak, i veri mostri dei nostri anni.

Speriamo in Mentana per avere un simulacro di informazione indipendente come speriamo in Fini per un simulacro di opposizione: un postfascista che ci deve, o dovrebbe, liberare dal neofascismo incarnato da Berlusconi. Come in una trama di fantapolitica da incubo, il mostro può essere battuto non dagli inermi avversari, bensì solo da chi ne ha condiviso a lungo le caratteristiche: ex alleati, ex dipendenti, ex moglie. Per sconfiggerlo occorre combatterlo dall’interno, come avvenne con il cavallo di Troia (ripensandoci, quest’esempio calza a pennello).

I freak show dell’Inghilterra vittoriana aiutarono ad articolare compiutamente i significati culturali connessi al concetto di alterità, chiarendo cosa voleva dire essere inglesi in un momento storico chiave per la costruzione di un’identità moderna e di un’ideologia imperialista. Forse tra un secolo una ricercatrice scriverà un libro sui mostri e sulle puttane che, a tutti i livelli, popolano l’Italia di oggi; forse dovremo aspettare allora per prendere finalmente le distanze dalla nostra postribolare vita pubblica e capire cosa significa essere cittadini e non sudditi di Sua Maestà.

sabato 24 aprile 2010

La storia non siamo noi

“E mi domandavo se un ricordo è qualcosa che hai ancora o non piuttosto qualcosa che hai perduto.” Così Gena Rowlands chiudeva il film di Woody Allen Un’altra donna. Questi anni liquidi, appiattiti in un eterno presente, stanno fiaccando una memoria collettiva già malferma: si fatica a trovare narrazioni condivise, storie che costruiscano identità. Ignoriamo deliberatamente, o deformiamo in base alle convenienze del momento, il nostro passato. Ma solo “chi studia il passato può prevedere il futuro” (Confucio).

Stanno saltando i parametri fissati dalla storia, dalla democrazia e dal buon senso. Oggi non sappiamo se parlare di mafia è giusto, insabbiando nell’oblio Cosimo Cristina (L’Ora), Mauro De Mauro (L’Ora), Giovanni Spampinato (L’Ora e l’Unità), Peppino Impastato (Radio Aut), Mario Francese (Giornale di Sicilia), Giuseppe Fava (I Siciliani), Giancarlo Siani (Il Mattino), Mauro Rostagno (Radio Tele Cine), Beppe Alfano (La Sicilia). Non sappiamo se domani, 25 aprile, dobbiamo ringraziare i partigiani, che si sacrificarono per la nostra libertà, o quelli di Salò, che difendevano gli ultimi rigurgiti violenti del fascismo. Non sappiamo se la critica e il dissenso, come quelli espressi da Fini alla Direzione PDL, sono legittimi all’interno di un partito: l’esercizio di un pensiero autonomo può ancora interrompere i plausi e il tifo isterico dei laudatores?

La storia non siamo più noi. I progressi della medicina e della tecnologia, tra i tanti benefici, ci costringono continuamente a percepire alterazioni bioniche della timeline. Il passato, individuale e collettivo, diventa un inutile fardello: volti e corpi vengono freddati dalla chirurgia estetica in un eterno presente e Photoshop fa il resto; spinning, fitness e body building, praticati senza moderazione, rendono i loro adepti prigionieri ottusi dei propri corpi; persino un piccolo, utile comando di Word, il “ripristina” o “annulla digitazione”, ci dà l’illusione di controllare il tempo, usando la memoria del computer per farci fare, in un certo senso, un piccolo viaggio nel passato.

Alcune delle serie tv di maggior successo internazionale, come Lost o Flashforward, mettono in discussione proprio il continuum temporale, anticipate in questo dalla produzione narrativa della fine del XIX e del XX secolo, che si caratterizzava per una visione del tempo discontinua, non lineare. Il naturale processo di invecchiamento non viene accettato, l’idea della fine è continuamente rimossa e la stessa linea di demarcazione tra vita e morte si altera, rifrangendosi in mille repliche e video su YouTube.

La crisi del passato coincide con quella del futuro: non sapendo da dove veniamo non sappiamo neanche dove andare. La Chiesa, tradizionale depositaria dell’assoluto nella cultura occidentale, si dimostra attenta come non mai al potere temporale. Un effetto della secolarizzazione della società, ma anche del fatto che sempre più fedeli giudicano indegni di amministrare il proprio avvenire persone capaci di parificare pedofilia e omosessualità o preda di squallide lotte intestine, come dimostra il caso Boffo.

Diceva Bernardo di Chartres, filosofo francese del XII secolo, che siamo come “nani sulle spalle dei giganti”, per esaltare le virtù degli uomini antichi. Oggi siamo nani sulle spalle di altri nani, ed è per questo che non riusciamo a scorgere il nostro orizzonte, prigionieri di un presente che non passa.

sabato 10 aprile 2010

Il sushi lo diamo al gatto

Circa 500 mila anni fa, l’ominide del Paleolitico imparò che i cibi cotti erano più saporiti, più digeribili e sicuri, oltre che più facili da masticare. I gruppi primitivi che impararono ad usare la cottura ebbero subito una notevole prosperità. Dimentichi dell’insegnamento dell’homo habilis, oggi le nostre strade sono infestate da locali nipponeggianti, pieni di personaggini cool, smart, pulp e cult, o sedicenti tali, bramosi di sfamarsi divorando pesce crudo.

Un tamarro esotismo di massa dettato dal minimalismo zen, apparentemente di moda in questi anni (salvo poi montare sul suv e andare a farsi una lampada appena usciti dal sushi bar), ma anche da più banali motivazioni caloriche: un pasto a base di sashimi e contorno di alghe consente una cenetta à la page senza strascichi adiposi.

Questa improvvisa passione per la cucina orientale avrebbe senso se fosse accompagnata da un popolo curioso, multiculturale, aperto alle novità e alle sfide del futuro; ma il sushi calato nell’immensa palude italiota, retrograda e provinciale, mette molta tristezza. New York è piena di gastronomie di tutto il mondo, quindi anche giapponesi, ma il melting pot si respira nell’aria, l’integrazione tra culture diverse è reale. Dopo aver assaporato il wasabi, escono e trovano Obama, noi la Polverini.


La colonizzazione alimentare statunitense ha trovato, nel dopoguerra, un baluardo culturale in Alberto Sordi, che poteva permettersi di dare lo yogurt al gatto e adoperare la mostarda per ammazzare le cimici, mentre inforchettava un bel piatto di maccheroni. La sua irresistibile resistenza era il contributo alla rinascita di uno spirito nazionale, con il rispetto e la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, anche gastronomico.


Oggi non abbiamo gli stessi anticorpi: diventiamo facili prede dei format del momento, senza riuscire ad afferrarne l’essenza autentica, che pure l’arte millenaria della cucina giapponese custodisce. Sprofondiamo così negli abissi svenevoli del kitsch, per cui balliamo il tango a Valmontone, che fa subito passionalità, tra una milonga e un outlet, oppure ci facciamo un tatuaggio Maori sulla stessa mano che poi impugna la scheda elettorale per votare Lega.


Superficiali e patetici, inseguiamo miti esotici che non conosciamo e che potrebbero arricchirci, se davvero volessimo approfondirli e integrarli. Ci innamoriamo delle malinconiche imitazioni di sushi, tanghi e tatuaggi, prodotti dei voli low cost e di una globalizzazione banale e mediocre, rinnegando ridicolmente le nostre tradizioni, le uniche che ci appartengono davvero e in grado di restituirci almeno uno straccio di identità. Decisamente meglio gli italiani di ieri: eravamo semplici pastasciuttari, ma almeno orgogliosi di esserlo.

domenica 4 aprile 2010

Buonasera, canta Damien

In Raiset vanno di gran moda gli show a base di bambini canterini: le giovani ugole hanno un effetto balsamico sugli ascolti dei decotti sabati sera generalisti. La sinistra padronanza del mezzo dimostrata dai fanciulli rende lo spettacolo, a un occhio più smaliziato, tutt’altro che rassicurante: il piglio luciferino e l’occhio fisso, dritto in telecamera li fanno sembrare già arsi dal sacro fuoco della tv, posseduti dal demonio catodico.

Secondo un'antica tradizione ebraica, Satana è colui che si fa grande con i piccoli e piccolo con i grandi: diabolica affinità con questi minuscoli esserini, che esibiscono orgogliosamente timbri e movenze da consumati chansonnier, e con adulti giuggioloni, spesso ridotti a stadio infantile, eterni Peter Pan.

Bambini e cuccioli sono sempre stati usati a man bassa da cinema, tv e pubblicità in tempi di crisi creativa: rappresentano la scorciatoia facile per racimolare consensi e quattrini, arrivando al cuore della gggente con innocente cupidigia, tra zecchini d’oro e piccoli fans, ragazzi che si restringono o che perdono aerei, bimbi belli, amici a quattro zampe ed emuli di Shirley Temple.


A proposito dell’enfant prodige del cinema americano degli anni ’30, Fruttero e Lucentini notarono in un celebre articolo, ironicamente intitolato Heil Shirley!, un’inquietante analogia: "Non c'è un rapporto diretto e dimostrabile tra Shirley Temple e Adolf Hitler, tra i riccioli d'oro e le camere a gas. Ma gli anni sono pur quelli e l'occhio del postero distingue ormai senza sforzo dietro il mostruoso dittatore urlante la mostruosa frugoletta che canta le sue canzoncine. Piacevano, piacevano entrambi, piacevano irrazionalmente, cultisticamente, totalmente. Entrambi pescavano in quella cupa palude dove la massima sdolcinatezza confina con la massima ferocia, e forse la provoca".


E’ il rischio di parlare alle pance anziché alle teste: si deprime il senso critico, lasciando che le scelte e i gusti vengano orientati dalla pura emotività. La politica si fa spettacolo e lo spettacolo politica, in un intreccio incestuoso dove i veri bambini sono in realtà i cittadini, trattati come pre-adolescenti, ascoltano da anni le stesse favole e gli va bene così. Anche la propaganda ha sempre sfruttato il meccanismo, lasciando che i peggiori dittatori si facessero ritrarre con un frugolo in braccio di fronte alla folla: chi accarezza un bimbo, o gli concede un prime-time, non può essere così cattivo.


I piccoli televisivi nostrani diventano un format, affrontano la diretta con navigato senso del palcoscenico, facendo inevitabilmente ricordare l’Anna Magnani di Bellissima, disposta a tutto pur di garantire alla figlia il successo a Cinecittà. Immaginiamo con malinconia le ansie da prestazione canora dei genitori di oggi, mentre selezionano il guardaroba fighetto per la prole e li accompagnano a prove e provini, pronti a farli sgolare per sparare imberbi acuti nel microfono e nei nostri timpani.


Padri e madri sognano per le loro creature un futuro nel dorato mondo dello show-biz, ma non sanno di essere solo comparse in un romanzo scritto da qualcun altro, meccanismo minore, in tutti i sensi: gran parte di quei pargoli faranno i ragionieri o andranno a cantare al massimo in qualche matrimonio a Vibo Valentia. P
rivi di difesa, vittime di famiglie distratte e scuole inadeguate, vengono strumentalizzati dagli strateghi del palinsesto delle nostre vite, negli studi tv e negli oratori, prima ancora di affacciarsi al mondo con la necessaria consapevolezza.

E quasi per sbaglio Eddie scoprì una delle grandi verità della sua infanzia: i veri mostri sono gli adulti.
(Stephen King)

martedì 30 marzo 2010

Il sorpasso


Ha vinto Bruno Cortona. Vince l’Italia di sempre: ama presentarsi come simpatica canaglia, cialtrona ma tutto sommato innocua mentre nasconde peccati ben più inconfessabili, al volante di un’Aurelia spider, sbeffeggiando col clacson quelli rimasti indietro, che si allontanano nello specchietto retrovisore. Il volto di Gassman vitellone gaudente mi sembra condensare plasticamente vizi e virtù di questa destra e del popolo, tanto, che la vota: apparentemente compagnona ma profondamente egoista, vigorosa ma inconcludente, tanto amante delle belle donne quanto indifferente alle regole fino alla tragica irresponsabilità.

Ogni popolo ha il governo che si merita e a questo punto va detto che la sintonia del berluscoleghismo con il Paese, o almeno con una metà abbondante, ha qualcosa di pre- e post-politico: è una sintonia profonda, culturale, quasi genetica. D’altra parte, ci ritroviamo una sinistra fighetta e salottiera che, se sopravvive nelle aree metropolitane, sprofonda nelle province: mi chiedevo cosa pensassero, dalle parti di Rieti o Frosinone, delle battaglie civili della Bonino. Ora lo sappiamo.

In Piemonte, il 4% della lista di Grillo ha regalato la Regione a Berlusconi: caro Beppe, adesso il Vaffa dovresti prendertelo tu. In Campania, l’incredibile pervicacia di Bassolino nel restare fino all’ultimo minuto, nonostante il disastro della monnezza in mondovisione, ha portato il Pd direttamente in discarica. In Puglia invece ha vinto Vendola, ossia l’unico che gli astuti dirigenti del Partito volevano cacciare. Sul piano nazionale poi, il prossimo leader dei democratici probabilmente adesso è in terza media.


Da tempo sostengo, e questo blog ne è l’espressione, che per capire davvero la politica di questo Paese non serva tanto leggere Repubblica o Internazionale, quanto Tv Sorrisi e Canzoni. Ieri sera, mentre i più masochisti si abbruttivano con percentuali, proiezioni e il duello Bindi-Bondi, in 6 milioni si godevano sereni la finale di Amici. Il voto ormai era stato espresso: i nostri connazionali si preoccupavano del televoto. Quelli che non erano davanti alla tv, pensavano forse già alle vacanze estive. Magari su una spider, sfrecciando veloci verso il mare.

domenica 28 marzo 2010

Noi per una notte


Ricorderemo a lungo il sapore clandestino ed eccitante della serata di giovedì quando, sulle antenne lesse delle varie tivù, scorrevano, nell’indifferenza generale, soporifere tribune elettorali con sottotitoli per i non udenti. Mentre noi, milioni di non udenti volontari, ci sintonizzavamo, corsari dell’etere, su frequenze meno frequenti e frequentate, sentendoci un po’ come i nonni che cercavano Radio Londra per avere un’informazione lontana dalla prosopopea della propaganda fascista.

Abbiamo finalmente potuto sentire in televisione le aberranti conversazioni tra i cosiddetti vertici Rai, il cosiddetto Presidente del Consiglio e la cosiddetta Authority per le Comunicazioni: in un Paese che conservasse ancora un briciolo di dignità, si sarebbero dovuti dimettere in blocco. Invece non solo stanno ancora tutti saldamente in sella, ma addirittura si permettono di invocare il licenziamento di chi rende pubbliche quelle intercettazioni: il criminale non è chi commette il reato, ma chi lo denuncia. La reazione della rete è stata fulminea: il gruppo che abbiamo aperto su Facebook “Mobilitazione permanente contro il licenziamento di Santoro” ha superato i 2000 iscritti in meno di 24 ore.

La finestra ormai si è aperta e ha lasciato entrare aria di primavera in una casa che è rimasta chiusa troppo a lungo: pensieri e parole proibiti, persone messe al bando, informazione vera, satira corrosiva. Merce pericolosissima per un regime avariato che si fonda sul servilismo di chi trasmette i messaggi e sull’apatia di chi li riceve, rispondendo in coro “Siii” e “Nooo” allo squadrismo retorico di finte domande.

Paperon de’ Berlusconi teme Santoro, come temeva Biagi, in quanto sanno usare la televisione e non sono in vendita. La storica serata Rai per una notte ha messo insieme diversi media e piattaforme: web, satellite, digitale terrestre, tv locali, radio. E, per una notte, Davide ha incredibilmente battuto Golia. Un’intuizione paradossalmente simile a quella che ebbe lo stesso B. quando, negli anni ‘80, sfruttò l’interconnessione delle emittenti televisive locali per aggirare il monopolio Rai.

Dal Paladozza di Bologna siamo riusciti, tutti insieme, ad aggirare la censura: chi di emittenza ferisce, di emittenza perisce. Come diceva McLuhan, “il mezzo è il messaggio”: la pluralità dei mezzi impiegati giovedì sera rimanda a un messaggio forte e plurale, lontano dalla voce solitaria del padrone e dal pensiero unico. Un lampo geniale, che non può esaurirsi in una sola serata. Ha dimostrato una forza propulsiva che qualcuno dovrebbe coltivare per il futuro, fino a riappropriarci finalmente di una parola stuprata da troppi anni: libertà.

sabato 20 marzo 2010

Silenzio stampa!

In Fahrenheit 451 Francois Truffaut, come nell’omonimo libro di Ray Bradbury, ipotizza un futuro nel quale leggere libri è considerato un reato, per contrastare il quale un apposito corpo di vigili del fuoco (i Pompieri della Sera?) brucia ogni tipo di volume. In 1984, per George Orwell la società è governata da un onnipotente partito unico con a capo il Grande Fratello, personaggio che tiene sotto controllo la vita di tutti i cittadini. I suoi occhi sono dei televisori-telecamere che, oltre a diffondere propaganda 24 ore su 24, spiano la vita di chiunque. Il partito è Governato dal Minamor (MINistero dell'AMORe), che controlla la fedeltà dei membri del partito, convertendo i dissidenti alla sua ideologia. Il Minamor è dotato di una polizia politica, la psicopolizia, che interviene in ogni situazione sospetta di eterodossia e di deviazionismo. Da noi la psicopolizia assume forme molteplici e ogni giorno ci si presenta con un volto nuovo, Authority per le Comunicazioni o Commissione di Vigilanza Rai.

La ridicola giustificazione formale, ovvero la possibile mancata applicazione della par condicio, non dissimula la verità sostanziale: chiudere d’imperio, in campagna elettorale, tutte le trasmissioni di approfondimento giornalistico del servizio pubblico televisivo è un atto di censura. Da quasi un mese, l’agenda dell’informazione televisiva è dettata esclusivamente dalle scelte dei telegiornali, orribilmente addomesticati e paludati, Tg3 incluso.

L’obiettivo della censura è soprattutto uno, Michele Santoro: Annozero è la trasmissione giornalistica più seguita della Rai e la sua libertà nell’accendere i riflettori su temi e personaggi che, altrimenti, in tv non finirebbero mai risulta intollerabile al Ministero dell’Amore. L’attacco, oltre che a Santoro e alla sua squadra, è a tutti noi, alla nostra libertà di cittadini di essere informati.


Come già per l’editto bulgaro, mi sembra doveroso sottolineare la pavidità nelle reazioni dei giornalisti delle altre testate, televisive e stampate. Al di là dell’appoggio di FNSI e Usigrai, si registrano solo tiepide solidarietà tra colleghi, mentre la gravità dell’accaduto avrebbe dovuto imporre forme di protesta ben più incisive. Pensate che segnale meraviglioso se, come accaduto in Estonia, e dico Estonia, tutti i quotidiani fossero usciti con una prima pagina completamente bianca, rivendicando la libertà di stampa. Ma sappiamo di che pasta sono fatti i giornalisti nostrani.


C’è un ulteriore risvolto di questa vicenda, ed è quello economico. Giovedì scorso le le Conferenze stampa per le Regionali che hanno preso il posto di Santoro hanno fatto appena 770 mila ascoltatori e il 2.83% di share, forse il minimo storico per la prima serata di Rai Due; per Annozero c'erano circa 5 milioni di spettatori e il 20% di share. Un crollo di ascolti che si riflette sulla pubblicità; un danno economico che diventa un danno erariale, visto che la Rai appartiene allo Stato. Chi ci risarcisce di questa ulteriore perdita? Va da sé che la serata di giovedì è stata vinta dalle reti Mediaset.


Stiamo forse diventando una società dispotica e distopica, l’opposto di utopica, ovvero una società indesiderabile? Come nei romanzi immaginati dalla letteratura di fantascienza, ma come purtroppo si è verificato anche nella storia, in questo momento della storia italiana abbiamo al comando non un’organizzazione, ma una singola persona che fa da catalizzatore dell'amore e del'odio, della paura e della venerazione. Quanto più aumentano la sua arroganza e la volontà di controllare chi non la pensa come lui, tanto più aumenta il nostro diritto di ribellarci.


PS Internet e le voci democratiche aggirano la censura.

Date il vostro contributo con 2,5 euro a http://www.raiperunanotte.it/

domenica 14 marzo 2010

C'era una volta il telegiornale

Cari nipoti, adesso vi racconterò una storia. C’era una volta, tanto tempo fa, un’abitudine assai diffusa in tutte le famiglie italiane: la sera, all’ora di cena, si accendeva la tv sul telegiornale. All’epoca, non c’era internet e per molti di noi quella era l’unica fonte per conoscere le notizie dall’Italia e dal mondo.

In estate, quando le finestre dei condomìni erano spalancate per il gran caldo, e non c’erano i condizionatori, camminando per strada si sentiva la sigla del tg risuonare tra i caseggiati, tanto quel notiziario era seguito. Ascoltare il “comunicato”, come lo chiamava mio nonno, era un rituale, come andare a messa: la scansione delle notizie sembrava appartenere a una selezione imperscrutabile e naturale, quasi fosse la mano di Dio a guidare la scaletta e il lancio degli rvm.

Lo studio aveva la semplicità francescana di un altare laico; i conduttori esibivano una sobria compostezza che rimandava a virtù ultraterrene. Era un’abitudine che sapeva di famiglia, mentre il ragù scoppiettava nella pentola di coccio. A un certo punto, alcuni loschi figuri, desiderosi di appropriarsi di tanto potere, si impadronirono della gloriosa testata. L’ammiraglia dell’informazione, un tempo così seriosa, venne prima trasformata in nave da crociera, svampita e attraente, piena di distrazioni e animatori e poi, mentre tutti erano lì sul ponte a prendere il sole, divenne un temibile vascello pirata.

Sui ponti vennero issati i cannoni; i pochi oblò furono oscurati e corazzati in modo che, a parte il cattivissimo Capitano, nessuno vedesse più nulla; lo stesso equipaggio sembrava non conoscere più la Direzione. Si scatenarono furibonde battaglie e furiose polemiche: alcuni certosini si impegnavano persino a conteggiare minuziosamente i minuti concessi a questo o a quel personaggio. Per molto tempo ancora, solo in pochi si accorsero che la soluzione del problema era invece assai semplice.

Infatti, bastava premere un tasto per far scomparire quel minaccioso vascello dalle onde agitate della tv. Prima lo fecero in pochi, poi sempre di più. Infine, una folla enorme, composta da 6-7 milioni di persone, di colpo spense la televisione: nonostante tutti quei cannoni, erano loro ad avere in mano l’arma più potente. Avevano finalmente capito che quel rituale collettivo era ormai privo di senso: non avevano bisogno di una bussola taroccata quando ciascuno poteva navigare liberamente per cercare le informazioni.

I pochi rimasti ancora davanti al video, per inerzia o per pigrizia, avevano gli occhi rivoltati all’insù e il cervello bollito. E comunque non bastarono a giustificare l’esistenza e il tesoro di quei diabolici pirati, che avevano cercato di impadronirsi di un’abitudine innocua per imporre una visione della realtà distorta e mistificata. La loro nave venne risucchiata nei flutti del mare in tempesta e colò a picco, mentre il Capitano urlava il suo ultimo, rabbioso editoriale. Quella che sembrava una corazzata inaffondabile giace oggi chissà dove sui fondali. Nessuno la ricorda più.

sabato 6 marzo 2010

Tar condicio


Marzo 2010, elezioni regionali nello sterco italiano: ne abbiamo a sufficienza per invocare gli osservatori dell’OCSE. Regole amputate, informazione oscurata, candidati impresentabili tra massaggi e appalti, trans e coca, camorra e ‘ndrangheta, querele e ricorsi al Tar.

Se c’è una legge che disciplina o prescrive un comportamento, non si adegua il comportamento: si cambia la legge. Stabilito il principio base, come per l’iPhone, le applicazioni sono innumerevoli: condoni, scudi, amnistie, indulti, lodi, leggi ad personam e decreti interpretativi. C’è un clima da Far West: quando non convengono, le regole si calpestano, riscrivendole a piacimento, sbronzandosi al saloon e irridendo lo sceriffo.

La violenza di uomini e gesti è scandalo, non si deve raccontare: i pochi testimoni ancora disposti a parlare vengono ridotti al silenzio, comprati, censurati. I microfoni diventano megafoni, le prescrizioni assoluzioni, i fatti opinioni. I riflettori rimangono accesi solo per servi, buffoni e puttane.


Pistoleri e fuorilegge entrano nel Palazzo e, come nota Travaglio, ci pisciano addosso dicendoci che piove. Le parole si svuotano nei telegiornali che sanno di cipria e paillettes, ridotti a rotocalchi per un popolino ebete; le luci della ribalta proiettano ombre confuse sui muri neri della propaganda. La barbarie comincia così.

sabato 27 febbraio 2010

Il Tg1 "assolve" Mills

La casta (assai poco casta) dei cosiddetti giornalisti sa che gli italiani sono capre, bamboccioni che non leggono e si attaccano alla tetta, spesso non metaforica, della tv e di "mamma" Rai. 

Servilismo e Arroganza arrivano a nascondere i fatti in modo spudorato, sapendo di poter contare su Ignoranza e Pigrizia, le migliori alleate della Menzogna.

Fino a quando glielo lasceremo fare, avranno ragione loro. Ma ricordiamoci che senza un'informazione indipendente, non c'è democrazia.

domenica 21 febbraio 2010

Sanremo, bignami d'Italia


Penso al Festival di Sanremo e mi viene in mente la celebre tripartizione arbasiniana delle italiche carriere: brillante promessa, solito stronzo e venerato maestro. In quale fase di questa scansione si trova il carrozzone sonoro? Avendo da tempo superato gli anni d’oro, verrebbe naturale annoverarlo tra i soliti stronzi, se non altro per la mediocre qualità delle canzoni in gara e soprattutto dei vincitori (Mengoni a parte). Ma l’incredibile capacità del Festival, fenomeno unico al mondo, di riflettere gli spiriti profondi del Paese, unita al fatto di aver raggiunto la ragguardevole cifra di 60 edizioni, lo fa avvicinare allo status prestigioso di maestro da venerare.
Come può vincere una canzone dal testo insulso (“Vorrei far l’amore in tutti i luoghi in tutti i laghi”) e interpretata con sempiterno stile neomelodico da un giovane vecchissimo di nome Valerio Scanu? Due le ipotesi sul tappeto. Nessuna delle quali ci salva da una profonda voglia di andare a nasconderci da qualche parte.

Ipotesi numero 1 – Uno strano televoto.
La lobby degli amici degli Amici potrebbe aver avuto la meglio.
Lo scorso anno vinse Marco Carta, proveniente dal talent show di Canale 5, e tra gli ospiti c’era Maria de Filippi. Quest’anno, dopo essere stato eliminato e ripescato, vince Valerio Scanu, identica provenienza, e tra gli ospiti dell’Ariston c’è stato Maurizio Costanzo. E’ la perfetta consacrazione di Raiset, anzi di Mediarai: un mostro televisivo unico, nel quale il biscione brianzolo sta lentamente stritolando il cavallo di viale Mazzini. Quest’anno, poi, la controprogrammazione di Mediaset era stranamente inesistente. Tra le altre coincidenze, da segnalare che Carta è di Cagliari e Scanu della Maddalena: loro sono sardi ma noi non siamo sordi.

Ipotesi numero 2 – Il baratro.
La seconda ipotesi è ancora più inquietante: il televoto si è svolto regolarmente e riflette le reali preferenze dei telespettatori. Sanremo si guadagnerebbe sul campo l’incoronazione a “venerato maestro”, se non a livello musicale, almeno a livello sociologico e culturale, mostrandoci in tutta la sua arretratezza un Paese che vota esattamente come televota, ispirandosi a uno stantio conservatorismo musicale e politico, preda di rigurgiti nostalgici monarchici.
Un’Italia che non investe in ricerca, che non guarda al futuro, rifiutando qualsiasi tentativo di innovazione, anche nel pop, e rifugiandosi in soluzioni retoriche patriottarde e senza prospettiva. Da registrare poi la percentuale femminile di spettatori di Sanremo, vicina al 60%, che avrebbe penalizzato le bravi cantanti donne in gara (Malika Ayane, Noemi, Irene Grandi), anche nella categoria Nuove Proposte: anche in quel caso, l’interprete più convincente era una donna, Nina Zilli (che infatti ha vinto il Premio della Critica, come Malika), ma il televoto ha premiato il solito ragazzotto occhi verdi-neomelodico-napoletano.
E’ vero che poi chi compra i dischi, o scarica gli mp3, ha fortunatamente gusti diversi. Ma ci sarà sempre un blocco di almeno 10 milioni di italiani ignoranti e indifferenti al merito, alla bravura, al talento, al nuovo, incapaci di guardare avanti, sensibili solo a richiami puramente estetici o alla rassicurazione sdolcinata di ciò che già conoscono.
Leggendo tra le righe, questa è la realtà drammatica di un Paese che non sa rinnovarsi. Un Paese che non legge e che si riconosce nei testi più elementari, nelle liriche più sbiadite e nelle assonanze più consunte. Ecco perché il Festival restituisce fedelmente l’immagine di un’Italia, che a volte dimentichiamo, meglio dell’Istat, meglio del Censis, meglio di un’indagine demoscopica. Ecco perché, parlando di Sanremo, non parliamo purtroppo solo di canzonette.

domenica 14 febbraio 2010

Zelig: non chiamiamola satira


La foto con Di Pietro e Contrada. Di Pietro che, subito dopo, approva per acclamazione la candidatura in Campania del plurinquisito De Luca. Le lotte intestine del Vaticano e i miasmi del caso Boffo. La protezione incivile di Bertolaso. In questo periodo gira decisamente troppa merda nei ventilatori, così l’altra sera mollo senza rimpianti Ballarò e mi guardo Zelig.

Tivù fatta bene, all’antica, carrellata di monologhisti più o meno bravi, più o meno giovani (il migliore per me è Maurizio Lastrico con la sua Divina Commedia calata nella modernità). La serata scorre leggera, riuscendo a strappare persino qualche sorriso. Alla fine però mi resta una sensazione strana, come di aver assistito a qualcosa di surgelato: a parte sporadiche uscite di Enrico Bertolino, non c’era nessun riferimento all’attualità.

Faccio qualche verifica, in realtà Zelig viene registrato solo alcuni giorni prima della messa in onda. Non riferirsi all’attualità è quindi una scelta editoriale. Le battute, gli sketch e i calembour si concentrano su un repertorio di situazioni privatistico-condominiali, a metà tra la Settimana Enigmistica e le innocue barzellette anni ’60: la suocera, il vigile, l’automobile, le nozze, al massimo l’amante.


Scelta saggia per gli autori, che consente loro di rinverdire i fasti del cabaret meneghino, senza disturbare il manovratore, che poi è l’editore, che poi è il Presidente del Consiglio: subliminale camaleontismo di Gino & Michele, storici ideatori del programma, che omaggiano così lo Zelig trasformista di Woody Allen. Scelta popolare per il pubblico, che si gode una serata scacciapensieri, abituandosi utilmente a ridere senza pensare. Scelta insipida per me, che rimpiango con nostalgia i tempi di Avanzi. Quando la tv ci trattava da adulti e la satira non era stemperata in uno sterile umorismo.

sabato 23 gennaio 2010

Rubavatar


L’altra sera su Sky, in occasione dell’uscita nella sale di quel capolavoro che è Avatar, hanno trasmesso alcuni vecchi film di James Cameron. Pochi sanno che il geniale regista canadese girò il suo primo lungometraggio proprio a Roma nel 1981. Con il proverbiale fiuto che abbiamo per i nuovi talenti, dopo appena cinque giorni di riprese il produttore decise di girare il resto da solo. Il film, Piraña paura, venne fuori orribile. Ma le analogie tra l’Italia e la successiva produzione artistica di Cameron non finirono lì.

Titanic, in questi giorni di celebrazioni craxiane, concretizza plasticamente i vecchi partiti politici che cozzano contro l’iceberg (poi scioltosi) di Mani pulite, cominciando ad affondare mentre l’orchestrina ancora suona in prima classe. In Terminator, gli eroi della resistenza vengono attaccati da feroci cyborg capaci di ingannevoli metamorfosi: trasformisti e anche un po’ revisionisti. Sempre in Terminator, assistiamo alla mascolinizzazione di figure femminili combattenti (la Bindi? La Bonino?) e viceversa (il caso Marrazzo e, più in generale, la transpolitica).

Infine, in Aliens, scopriremo che i mostri si sono moltiplicati e hanno ucciso tutti. Così, trivellati dalle True Lies, bugie così perfette da sembrare vere, sprofondiamo negli Abyss. Mentre ormai il pianeta Pandora è popolato interamente dagli Avatar dei ladri della Prima Repubblica, molto più alti, forti e duri da eliminare degli originali: i Rubavatar.

Non siamo scienza, siamo fantascienza.

domenica 10 gennaio 2010

Signora badi ben, che sia fatto di Moplen


Nel 1963 un chimico di Imperia, Giulio Natta, vinse il Nobel per la chimica per la scoperta del polipropilene, ottenuto in laboratorio nel 1954, volgarmente detto plastica. La commercializzazione avvenne a cura della Montecatini che, con il nome di Moplen, realizzò con grande successo scolapasta, vasche, secchi, tubi di scarico e sifoni. Questi e altri suppellettili domestici furono prodotti grazie al ritrovato, indeformabile e indistruttibile, capace di assumere qualsiasi colore e che entrava, con i caroselli di Gino Bramieri, nelle case e nelle abitudini degli italiani ("E mò e mò e mò... Moplen!", "Signora badi ben, che sia fatto di Moplen!").

In quegli anni, ancora lontani da consapevolezzze ecologiste e stringenti paradigmi bio, gli oggetti fatti di Moplen erano sinonimo di praticità, progresso, industria. La plastica non era associata, come avviene oggi, a qualcosa di artificioso, finto e antiambientale. Dopo la parentesi degli anni '70, che sostituì la plastica col piombo, il miracoloso polimero si prese la rivincita col riflusso del decennio successivo; ma fu qualcosa di profondamente diverso.

La plastica non era più quella innocua e colorata degli scolapasta: divenne metafora di un'epoca, gli anni '80, che in Italia non è mai finita. Con la chirurgia, la plastica entra nelle facce delle persone; da lì, in qualche modo, trova un varco per entrare nelle teste, come in un film di Cronenberg. Da alfiere del miracolo economico a principio rimodellante di zigomi e pensieri, plasmati e fissati per l'eternità.

Dopo aver ricoperto con onore l'utile ruolo di materiale principe dei tinelli nazionali, la plastica scende finalmente in campo e fa il suo ingresso in politica. I vecchi partiti, che sembravano di ferro, si sciolgono al fuoco di Tangentopoli; i partiti liquidi dopo un po', inevitabilmente, evaporano. La plastica, invece, come sappiamo è indistruttibile e può durare un secolo, assumendo forme sempre diverse, nuove ed attraenti, accompagnata da tormentoni, jingle e caroselli. Il genio italico, dopo aver ideato la plastica, ha plastificato le idee. Non pretendiamo un altro Nobel, ma almeno un Oscar lo meritiamo tutto.