sabato 24 aprile 2010

La storia non siamo noi

“E mi domandavo se un ricordo è qualcosa che hai ancora o non piuttosto qualcosa che hai perduto.” Così Gena Rowlands chiudeva il film di Woody Allen Un’altra donna. Questi anni liquidi, appiattiti in un eterno presente, stanno fiaccando una memoria collettiva già malferma: si fatica a trovare narrazioni condivise, storie che costruiscano identità. Ignoriamo deliberatamente, o deformiamo in base alle convenienze del momento, il nostro passato. Ma solo “chi studia il passato può prevedere il futuro” (Confucio).

Stanno saltando i parametri fissati dalla storia, dalla democrazia e dal buon senso. Oggi non sappiamo se parlare di mafia è giusto, insabbiando nell’oblio Cosimo Cristina (L’Ora), Mauro De Mauro (L’Ora), Giovanni Spampinato (L’Ora e l’Unità), Peppino Impastato (Radio Aut), Mario Francese (Giornale di Sicilia), Giuseppe Fava (I Siciliani), Giancarlo Siani (Il Mattino), Mauro Rostagno (Radio Tele Cine), Beppe Alfano (La Sicilia). Non sappiamo se domani, 25 aprile, dobbiamo ringraziare i partigiani, che si sacrificarono per la nostra libertà, o quelli di Salò, che difendevano gli ultimi rigurgiti violenti del fascismo. Non sappiamo se la critica e il dissenso, come quelli espressi da Fini alla Direzione PDL, sono legittimi all’interno di un partito: l’esercizio di un pensiero autonomo può ancora interrompere i plausi e il tifo isterico dei laudatores?

La storia non siamo più noi. I progressi della medicina e della tecnologia, tra i tanti benefici, ci costringono continuamente a percepire alterazioni bioniche della timeline. Il passato, individuale e collettivo, diventa un inutile fardello: volti e corpi vengono freddati dalla chirurgia estetica in un eterno presente e Photoshop fa il resto; spinning, fitness e body building, praticati senza moderazione, rendono i loro adepti prigionieri ottusi dei propri corpi; persino un piccolo, utile comando di Word, il “ripristina” o “annulla digitazione”, ci dà l’illusione di controllare il tempo, usando la memoria del computer per farci fare, in un certo senso, un piccolo viaggio nel passato.

Alcune delle serie tv di maggior successo internazionale, come Lost o Flashforward, mettono in discussione proprio il continuum temporale, anticipate in questo dalla produzione narrativa della fine del XIX e del XX secolo, che si caratterizzava per una visione del tempo discontinua, non lineare. Il naturale processo di invecchiamento non viene accettato, l’idea della fine è continuamente rimossa e la stessa linea di demarcazione tra vita e morte si altera, rifrangendosi in mille repliche e video su YouTube.

La crisi del passato coincide con quella del futuro: non sapendo da dove veniamo non sappiamo neanche dove andare. La Chiesa, tradizionale depositaria dell’assoluto nella cultura occidentale, si dimostra attenta come non mai al potere temporale. Un effetto della secolarizzazione della società, ma anche del fatto che sempre più fedeli giudicano indegni di amministrare il proprio avvenire persone capaci di parificare pedofilia e omosessualità o preda di squallide lotte intestine, come dimostra il caso Boffo.

Diceva Bernardo di Chartres, filosofo francese del XII secolo, che siamo come “nani sulle spalle dei giganti”, per esaltare le virtù degli uomini antichi. Oggi siamo nani sulle spalle di altri nani, ed è per questo che non riusciamo a scorgere il nostro orizzonte, prigionieri di un presente che non passa.

sabato 10 aprile 2010

Il sushi lo diamo al gatto

Circa 500 mila anni fa, l’ominide del Paleolitico imparò che i cibi cotti erano più saporiti, più digeribili e sicuri, oltre che più facili da masticare. I gruppi primitivi che impararono ad usare la cottura ebbero subito una notevole prosperità. Dimentichi dell’insegnamento dell’homo habilis, oggi le nostre strade sono infestate da locali nipponeggianti, pieni di personaggini cool, smart, pulp e cult, o sedicenti tali, bramosi di sfamarsi divorando pesce crudo.

Un tamarro esotismo di massa dettato dal minimalismo zen, apparentemente di moda in questi anni (salvo poi montare sul suv e andare a farsi una lampada appena usciti dal sushi bar), ma anche da più banali motivazioni caloriche: un pasto a base di sashimi e contorno di alghe consente una cenetta à la page senza strascichi adiposi.

Questa improvvisa passione per la cucina orientale avrebbe senso se fosse accompagnata da un popolo curioso, multiculturale, aperto alle novità e alle sfide del futuro; ma il sushi calato nell’immensa palude italiota, retrograda e provinciale, mette molta tristezza. New York è piena di gastronomie di tutto il mondo, quindi anche giapponesi, ma il melting pot si respira nell’aria, l’integrazione tra culture diverse è reale. Dopo aver assaporato il wasabi, escono e trovano Obama, noi la Polverini.


La colonizzazione alimentare statunitense ha trovato, nel dopoguerra, un baluardo culturale in Alberto Sordi, che poteva permettersi di dare lo yogurt al gatto e adoperare la mostarda per ammazzare le cimici, mentre inforchettava un bel piatto di maccheroni. La sua irresistibile resistenza era il contributo alla rinascita di uno spirito nazionale, con il rispetto e la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, anche gastronomico.


Oggi non abbiamo gli stessi anticorpi: diventiamo facili prede dei format del momento, senza riuscire ad afferrarne l’essenza autentica, che pure l’arte millenaria della cucina giapponese custodisce. Sprofondiamo così negli abissi svenevoli del kitsch, per cui balliamo il tango a Valmontone, che fa subito passionalità, tra una milonga e un outlet, oppure ci facciamo un tatuaggio Maori sulla stessa mano che poi impugna la scheda elettorale per votare Lega.


Superficiali e patetici, inseguiamo miti esotici che non conosciamo e che potrebbero arricchirci, se davvero volessimo approfondirli e integrarli. Ci innamoriamo delle malinconiche imitazioni di sushi, tanghi e tatuaggi, prodotti dei voli low cost e di una globalizzazione banale e mediocre, rinnegando ridicolmente le nostre tradizioni, le uniche che ci appartengono davvero e in grado di restituirci almeno uno straccio di identità. Decisamente meglio gli italiani di ieri: eravamo semplici pastasciuttari, ma almeno orgogliosi di esserlo.

domenica 4 aprile 2010

Buonasera, canta Damien

In Raiset vanno di gran moda gli show a base di bambini canterini: le giovani ugole hanno un effetto balsamico sugli ascolti dei decotti sabati sera generalisti. La sinistra padronanza del mezzo dimostrata dai fanciulli rende lo spettacolo, a un occhio più smaliziato, tutt’altro che rassicurante: il piglio luciferino e l’occhio fisso, dritto in telecamera li fanno sembrare già arsi dal sacro fuoco della tv, posseduti dal demonio catodico.

Secondo un'antica tradizione ebraica, Satana è colui che si fa grande con i piccoli e piccolo con i grandi: diabolica affinità con questi minuscoli esserini, che esibiscono orgogliosamente timbri e movenze da consumati chansonnier, e con adulti giuggioloni, spesso ridotti a stadio infantile, eterni Peter Pan.

Bambini e cuccioli sono sempre stati usati a man bassa da cinema, tv e pubblicità in tempi di crisi creativa: rappresentano la scorciatoia facile per racimolare consensi e quattrini, arrivando al cuore della gggente con innocente cupidigia, tra zecchini d’oro e piccoli fans, ragazzi che si restringono o che perdono aerei, bimbi belli, amici a quattro zampe ed emuli di Shirley Temple.


A proposito dell’enfant prodige del cinema americano degli anni ’30, Fruttero e Lucentini notarono in un celebre articolo, ironicamente intitolato Heil Shirley!, un’inquietante analogia: "Non c'è un rapporto diretto e dimostrabile tra Shirley Temple e Adolf Hitler, tra i riccioli d'oro e le camere a gas. Ma gli anni sono pur quelli e l'occhio del postero distingue ormai senza sforzo dietro il mostruoso dittatore urlante la mostruosa frugoletta che canta le sue canzoncine. Piacevano, piacevano entrambi, piacevano irrazionalmente, cultisticamente, totalmente. Entrambi pescavano in quella cupa palude dove la massima sdolcinatezza confina con la massima ferocia, e forse la provoca".


E’ il rischio di parlare alle pance anziché alle teste: si deprime il senso critico, lasciando che le scelte e i gusti vengano orientati dalla pura emotività. La politica si fa spettacolo e lo spettacolo politica, in un intreccio incestuoso dove i veri bambini sono in realtà i cittadini, trattati come pre-adolescenti, ascoltano da anni le stesse favole e gli va bene così. Anche la propaganda ha sempre sfruttato il meccanismo, lasciando che i peggiori dittatori si facessero ritrarre con un frugolo in braccio di fronte alla folla: chi accarezza un bimbo, o gli concede un prime-time, non può essere così cattivo.


I piccoli televisivi nostrani diventano un format, affrontano la diretta con navigato senso del palcoscenico, facendo inevitabilmente ricordare l’Anna Magnani di Bellissima, disposta a tutto pur di garantire alla figlia il successo a Cinecittà. Immaginiamo con malinconia le ansie da prestazione canora dei genitori di oggi, mentre selezionano il guardaroba fighetto per la prole e li accompagnano a prove e provini, pronti a farli sgolare per sparare imberbi acuti nel microfono e nei nostri timpani.


Padri e madri sognano per le loro creature un futuro nel dorato mondo dello show-biz, ma non sanno di essere solo comparse in un romanzo scritto da qualcun altro, meccanismo minore, in tutti i sensi: gran parte di quei pargoli faranno i ragionieri o andranno a cantare al massimo in qualche matrimonio a Vibo Valentia. P
rivi di difesa, vittime di famiglie distratte e scuole inadeguate, vengono strumentalizzati dagli strateghi del palinsesto delle nostre vite, negli studi tv e negli oratori, prima ancora di affacciarsi al mondo con la necessaria consapevolezza.

E quasi per sbaglio Eddie scoprì una delle grandi verità della sua infanzia: i veri mostri sono gli adulti.
(Stephen King)