sabato 26 novembre 2011

Fiore sulla monnezza


Oltre 12 milioni di spettatori per Fiorello: un risultato straordinario, da tv del monopolio e del monoscopio, in una stagione che sancisce il declino delle reti generaliste, la fine dei pubblici di massa, lo spezzettamento degli ascolti su digitale terrestre e satellite, il diffondersi di modalità di fruizione differite, di network interattivi con piattaforme partecipative estese e un contributo attivo degli utenti nella produzione dei contenuti. Come si spiega allora il successo plebiscitario di un varietà tradizionale nell’era della Participation Economy?

Il trionfo è ancora più evidente considerando che avviene sulla disastrata Rai Uno, emittente minzolinizzata, ferrarizzata e vespizzata, che propone quotidianamente informazione con credibilità sottozero, fiction che sanno di muffa, show stantii e senza mordente. Fiore su un cumulo di monnezza, il talento dell’intrattenitore siciliano è riuscito a smarcarsi dalla mediocrità avvilente del palinsesto della sua stessa rete, sbaragliando al contempo la concorrenza pruriginosa e voyeurista del Grande Fratello, simbolo assoluto di una generazione rincoglionita, emblema adamantino del vuoto elevato a potenza, filosofia industriale di Mediaset e del suo padrone.

Il lunedì sera, dopo le pizze del sabato e i cinema della domenica, il popolo di Twitter, giovane e dinamico, si unisce eccezionalmente a quello di Rai Uno, anziano e casalingo, con uno spirito trasversale di coesione sociale che rispecchia in tv l’ampio consenso che il governo Monti sembra riscuotere presso l’opinione pubblica nazionale per superare la crisi economica.


#Il più grande spettacolo dopo il weekend
va in onda il giorno in cui riaprono le Borse ma serve a dimenticare l’angoscia dei mercati, lo stress da spread, l’insonnia da rating: ansiolitico privo di effetti collaterali, show ben confezionato, divertente e garbato, senza particolari innovazioni di linguaggio né l’ansia della satira politica a tutti i costi, in grado di parlare a tutti, con una scenografia bellissima e un’atmosfera da evento nazional-popolare, in senso alto, simile al Fantastico di Baudo.


Le tettone sculettanti degli ultimi vent’anni sono state sostituite da un elegante corpo di ballo in smoking, coreografato dal fondatore dei Momix; i palestrati e le botulinizzate che copulano sotto la doccia rimpiazzati da Giorgia che canta in bianco e nero; la gggente non è protagonista per forza ma spettatrice divertita e complice di un talento: esteticamente, è il trionfo degli anni Sessanta, eleganti ed essenziali, sugli Ottanta, truci ed esibizionisti, disimpegnati e cialtroni.


Il mazziere ha dato le carte e stavolta, miracolosamente, ogni cosa sembra al suo posto: le istituzioni presiedute da persone serie, competenti e autorevoli; le prime serate tv presidiate da chi sa farle e non dal solito manipolo di raccomandati e sciacquette. Forse è proprio questo il segreto del successo di Fiorello: ha annusato lo spirito del tempo, il suo è effettivamente il più grande spettacolo dopo l’eterno weekend berlusconiano, un tranquillo, lunghissimo weekend di paura.


E’ lunedì ed è anche finita la ricreazione: abbiamo cazzeggiato abbastanza, siamo finiti sull’orlo del baratro. Pilota ed equipaggio sono in cabina. Allacciare le cinture, si prevedono turbolenze.

domenica 13 novembre 2011

La musica è finita

La sbornia è quella delle grandi occasioni: è durata diciassette anni, quasi come quell’altra, quando ci liberarono gli anglo-americani. Adesso è toccato ai francesi e ai tedeschi, ai mercati globali che hanno castigato il Presidente imprenditore, alla stampa internazionale: la copertina dell’Economist “Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy” è dell’aprile 2001, negli anni ne seguirono altre cinque, tutte sprezzanti. (http://www.economist.com/blogs/newsbook/2011/11/silvio-berlusconi)

In Italia, nel frattempo, si sprecavano gli inciuci e le analisi politologiche paracule, coi finti ciechi che, nella società, guidano la macchina per truffare l’Inps e, sulla stampa, firmano gli editoriali per truffare l’opinione pubblica, mentre si ingrossava la corte degli aedi e dei cantori di un governo di cartapesta, tutti felici di rovistare nella merda, perché miliardi di mosche non possono avere torto.

Rome wasn’t built in a day
, anche le ragioni del consenso berlusconiano vengono da lontano, da una legittimazione domestica ed emotiva che risale ai palinsesti televisivi degli anni Ottanta. Alle elezioni del 2001 il 44,8% delle casalinghe scelse Forza Italia, dopo anni di programmi del day time, infinite telenovele, voyeurismo di massa. Un blocco elettorale di bocca buona, con istruzione medio-bassa, che si è saldato con gli interessi di gilde e corporazioni interessate esclusivamente al mantenimento dello status quo, di assurdi e anacronistici privilegi, a discapito dell’interesse generale.


Il populismo videocratico e monopolista, sotto le mentite spoglie di un liberalismo da museo delle cere, ha assecondato gli istinti peggiori dell’elettorato. Da un lato, lisciando il pelo alle signore che non leggono l’Economist ma i rotocalchi popolari: storie di famiglia reale arcoriana, dimore sontuose, lusso a portata di mano, promesse miracolistiche dietro l’angolo, lessico mistificatorio, spiritosaggini a buon mercato e deleghe in bianco. Dall’altro, garantendo pervicacemente gli interessi indifendibili di evasori fiscali, lobby di ogni genere, camarille e consorterie, all’occorrenza anche criminali, che hanno impedito uno sviluppo e una crescita trasparenti.


L’efficientismo brianzolo si manifestava solo quando si trattava di difendere gli interessi opachi del Demiurgo: i lavori parlamentari registravano decreti approvati a tempo di record, prescrizioni sprint, amnistie lampo, tempestivi provvedimenti ad aziendam. Per il resto, come scrive Le Monde, dopo diciassette anni il Cavaliere lascia l’Italia come l’aveva trovata (se non peggio): nessuna riforma, nessuna liberalizzazione, nessuna grande opera, situazione economica allo sbando, tasse sempre più alte.


I segnali che l’impero del biscione stava scricchiolando erano sempre più insistenti e solo i sordi potevano non sentirli, a partire dal J‘accuse di Veronica Lario, che apriva finalmente uno squarcio di verità sullo squallore morale delle “giovani vergini che si offrivano al drago”. I mediocri, premiati con scranni e cadreghe palesemente fuori dalla loro portata, mascheravano la loro inadeguatezza offrendo una difesa talebana, ideologica e manichea del regime berlusconiano, in barba a qualsiasi logica meritocratica.


Crisi economica internazionale, stagnazione nazionale negata fino all’altroieri in nome dei ristoranti pieni, terremoti, monnezze e alluvioni gestite con magliara improvvisazione: la marea del dissenso stava inesorabilmente tracimando e la macchina della propaganda dei tg e dei grandi fratelli, sempre meno seguiti, non riusciva più ad arginarla. I primi segnali arrivano proprio dal piccolo schermo, ideale capolinea catodico del Cavaliere: gli enormi successi delle trasmissioni di denuncia e indignazione di Fazio e Saviano, di Santoro, la vittoria di Vecchioni a Sanremo. Qualcosa si stava muovendo nella pancia del Paese, come poi hanno confermato le vittorie di Pisapia a Milano e De Magistris a Napoli e i referendum sull’immunità giudiziaria per il Presidente del Consiglio, sul nucleare e sulla privatizzazione dell’acqua.


Come per la primavera araba, Internet, i blog e i social network hanno avuto un ruolo fondamentale nella presa di coscienza e nella mobilitazione collettiva: il Popolo viola, la campagna contro la legge bavaglio, il movimento femminista “Se non ora quando”, Libertà e Giustizia, la Valigia blu, la Rai ai cittadini. Il geniale esperimento mediatico di Michele Santoro dimostra che è ormai possibile comunicare efficacemente bypassando le reti tv generaliste: in questo caso, il mezzo è davvero il messaggio. Con “Servizio pubblico”, il fenomeno Berlusconi, oltre che politicamente esaurito, si trova nella stessa stagione a essere disintermediato anche come editore. Il 75enne tycoon televisivo, un tempo innovatore di strumenti e di linguaggi, viene disinnescato da una modernità che non ha capito né introiettato nel suo modello di business: Mediaset ha fatto causa a YouTube, rimanendo ancorata a una tv vecchia, fatta di format plagiati e consunti, di risate registrate e ragazze fast food fuori tempo massimo, di un’informazione poco credibile.

Dopo un estenuante braccio di ferro, la realtà ha finalmente avuto la meglio sui reality. Adesso ci rimane il trucco sfatto di un clown e del suo circo, i piatti pieni di briciole, i calici con le tracce di rossetto e lo champagne svaporato. I sogni sono rimasti nel cassetto e le macerie morali di questi anni perduti, irresponsabili e forse irreparabili, potranno essere rimosse solo con sobrietà, rigore, razionalità, competenza e onestà intellettuale. Sui vestiti slacciati e i letti sfatti, sui ragionamenti slabbrati e il turpiloquio livido e sbruffone, scorrono finalmente i titoli di coda. Speriamo che la coda non sia quella, velenosa, dello scorpione.


Diceva Nietzsche, filosofo del superomismo: “Ciò che non uccide fortifica”. Se lo Stato italiano ha resistito allo svacco e al bivacco, alla prostituzione politica e giornalistica, al fango e al secessionismo, allo squilibrio nel bilanciamento tra i poteri, quello Stato si risveglia stamattina più forte e credibile di prima: evidentemente le radici sono più salde di quanto pensassimo. Siamo guariti da Berlusconi con un’enorme iniezione di Berlusconi, abbiamo curato la malattia con il vaccino, come auspicava Montanelli, l’unico modo per ottenere l’immunità. Farmacologica, non parlamentare. Speriamo che se ne accorgano i mercati, da lunedì, e speriamo che se ne accorgano presto tutti gli italiani, arrotolando gli striscioni da stadio e scrollandosi di dosso le paillettes.

domenica 6 novembre 2011

Transformers


Passo davanti all’Auditorium di Roma, c’è di scena Arturo Brachetti, che interpreta 80 personaggi diversi in due ore di spettacolo. Il trasformista più veloce del mondo è italiano: non può essere solo una coincidenza, penso a Fregoli e a Depretis, a Mastella e a Scilipoti.

Genova viene risucchiata dal fango. Puntuale come una cartella di Equitalia, arriva il monito di Napolitano: “Capire le cause”. Le cause sono la classe politica nella quale lui prospera da 60 anni. La reazione del nano è esilarante: “Hanno costruito dove non si poteva”. La politica dei condoni deve averla fatta un altro dei suoi avatar, forse il Presidente operaio.

Il Fondo Monetario Internazionale ci mette sotto osservazione e il Giornale rovescia impudicamente la realtà titolando: “Berlusconi chiede al FMI di certificare i nostri conti”. Siamo il Paese delle maschere, in cui i puttanieri vanno al Family Day, in cui nessuno era fascista dopo il 1945, nessuno era democristiano dopo il 1992, nessuno ha mai guardato Sanremo, in cui nessuno sarà stato berlusconiano (prossimamente su questo palco).


“Il più grande trasformista al mondo - La plus grand acteur trasformiste au monde - The greatest quick-change artist.” Queste scritte non dovrebbero ornare solo i cartelloni teatrali. Dovrebbero essere appese all’ingresso di molte porte e portoni, redazioni, davanti al Parlamento, a Palazzo Chigi, al Quirinale.

domenica 16 ottobre 2011

Black out

 
Le prime pagine del Giornale e di Libero stamattina annunciano all'unisono che ieri in piazza a Roma c'era l'Italia dell'odio, oltre a far intendere che questi indignati "coccolati dalla sinistra" sono in realtà dei criminali, come le trafelate cronache di piazza S. Giovanni avrebbero dimostrato.

A parte la consueta impermeabilità ai fatti, che hanno visto sfilare 200.000 persone pacifiche a fronte di poche centinaia di teppistelli, colpisce la disinvoltura con cui i due house-organ liquidano le ragioni di una protesta globale, ignorandole e strumentalizzandole per rianimare il consenso di un governo allo sbando.


Se proprio dobbiamo ragionare di politica con le categorie della cronaca nera, facciamolo fino in fondo. Per esempio ragionando sul movente: chi sta cercando di giovarsi dell'episodio di ieri? Certamente non gli indignati che sfilavano civilmente, le cui istanze sono state oscurate, in quanto la violenza dei black bloc le ha allontanate da una simpatia generale e da una saldatura con l'opinione pubblica, come sta avvenendo in altri Paesi.


La maggioranza sta invece scandolosamente speculando sui fatti di Roma, presentandosi come l'unica soluzione politica in grado di arginare un'opposizione immatura e irresponsabile, che sfascia vetrine,
incendia auto, non rispetta la religione né la proprietà privata. Come al solito, una semplificazione coatta (in tutti i sensi) crea un calderone emotivo allergico alle distinzioni, un grande carro allegorico propagandistico.

Da cittadini dotati di senno, facciamoci allora alcune domande: perchè i teppisti, che sono arrivati con i caschi quindi erano riconoscibilissimi, non sono stati identificati e fermati prima di entrare nell'alveo del corteo?
Si è trattato, nella migliore delle ipotesi, di una gestione fallimentare dell'ordine pubblico, che ha messo a serio repentaglio l'incolumità di centinaia di migliaia di cittadini inermi. Qualcuno deve risponderne.

domenica 9 ottobre 2011

Il male minore

In questi giorni è tornato in edicola “Il Male”, di Vauro e Vincino, che hanno deciso di dare nuova vita al celebre foglio satirico che uscì tra il 1977 e il 1982. Nato negli anni dell’austerità e del movimento degli autonomi, la cui base era formata da un proletariato giovanile e intellettuale che contestava il consociativismo del Partito Comunista Italiano, la rivista si ispirava al parigino Le Canard Enchaîné, ma fu inghiottita dal riflusso e dall’apparente benessere economico dell’Italia degli anni ’80 che, almeno culturalmente, non sono ancora finiti (http://azionecatodica.blogspot.com/2009/07/cosa-restera-di-questi-anni-80.html).

L’interminabile agonia di Berlusconi rende interessante questo ritorno in edicola, quasi a suggello della fine di un ciclo durato trent’anni. Bisogna tuttavia essere consapevoli di un elemento decisivo per comprendere appieno la realtà italiana: la fine del Cavalier Patonza, che ci auguriamo comunque imminente, non coinciderà con la fine del berlusconismo. Come scrive Claudio Fava, “il dramma in questo paese non è tanto Silvio Berlusconi quanto i suoi cortigiani... ai sovrani puoi tagliare la testa … i cortigiani invece cambieranno cipria e parrucca, e ci toccherà tenerceli”.

Berlusconi è stato un termometro che, nel misurare la malattia della società italiana, ha contribuito in modo decisivo e irresponsabile a portarci verso la fase terminale; la patologia era comunque già presente, altrimenti uno come lui non si sarebbe mai potuto candidare né dominare, politicamente e culturalmente, per tutti questi lunghi e bui anni.


La fase cronica della malattia la si evince da un illustre antenato de “Il Male”: un giornale anticlericale di ispirazione socialista nato alla fine del XIX secolo che si chiamava “L’Asino”, le cui invettive satiriche risultano sorprendentemente attuali, a testimonianza del fatto che i problemi italiani sono rimasti pressoché invariati per oltre cent’anni.


Uscito nel 1892, anno del primo ministero Giolitti e della fondazione del partito socialista, “L’asino” durò fino al 1925, quando il fascismo soppresse la libertà di stampa. Il settimanale, fondato dal giornalista Guido Podrecca e dal disegnatore e caricaturista Gabriele Galantara - le cui vignette erano facilmente comprensibili anche agli analfabeti - che si firmavano con gli pseudonimi “Goliardo” e “Ratalanga”, conobbe un duraturo successo, superando le 100mila copie negli anni successivi al 1904, fatto eccezionale per l’epoca; uscì addirittura un’edizione speciale per gli emigrati italiani negli Stati Uniti.


Gli anni di Giolitti furono segnati da scandali politici e corruzione: una crisi morale e politica che illuminava la linea politica de “L’Asino”, caratterizzata da intransigenza morale e da una critica serrata delle istituzioni e della prassi di governo. Lo scandalo della Banca Romana, che coinvolse parte vastissima dell’ambiente politico e giornalistico, permise all’Asino di sferrare i suoi primi calci.


Fu tra i primi giornali a denunciare i numerosi uomini politici sovvenzionati da Bernardo Tanlongo (il governatore della Banca Romana, arrestato nel gennaio 1893). Lo scandalo, come è noto, portò alla crisi del governo Giolitti, che fu seguito da Crispi, nuovo bersaglio delle polemiche asinine, anche perché le successive indagini accertarono che le responsabilità di Giolitti nell’affare della Banca Romana furono più politiche che morali.


Altri bersagli del settimanale satirico sembrano presi dalla recente attualità: abusi, corruzione amministrativa, brutalità poliziesche, carattere classista della giustizia e subordinazione di essa al potere esecutivo. “L’Asino” subì frequenti sequestri, arresti e condanne dei suoi redattori. Nel 1896, a consolidare il contributo della stampa socialista per combattere i diversi tentativi autoritari della fine del secolo XIX, nacque l’”Avanti!”, passato quindi dalla direzione di Bissolati a quella di Lavitola. Qui non serve aggiungere altro.


Il tratto caratterizzante delle battaglie civili condotte da “L’Asino” fu un feroce anticlericalismo: il prete era dipinto negli articoli e nelle feroci caricature come lussurioso, corrotto e corruttore, sempre pronto a sfruttare l’ignoranza e la superstizione dei poveri e la cattiva coscienza dei ricchi per soddisfare le sue brame libidinose, accumulare denaro e accrescere il potere materiale della Chiesa. Tra i bersagli preferiti, lo stesso papa Sarto e il Segretario di Stato Merry del Val. Lo scopo di questa polemica era evidentemente quello di demolire l’influenza esercitata dal clero sul costume e sulla mentalità delle masse attraverso le tradizionali manifestazioni della religiosità popolare, scalzando l’influenza degli ordini religiosi nel campo educativo.


Rimase celebre, in particolare, oltre alle numerose denunce di corruzione e fatti scandalosi, la campagna condotta da “L’Asino” contro il celibato ecclesiastico, ritenuto la causa fondamentale dell’immoralità dei preti in campo sessuale. Il settimanale di Podrecca e Galantara non mancò di attaccare, spesso e volentieri, il miracolo di S. Gennaro, la Sindone di Torino, i santuari di Pompei, Loreto e Lourdes, col loro contorno di guarigioni miracolose e pellegrinaggi, e il connesso mercato di reliquie e immagini miracolose, che produceva (e produce a tutt’oggi) lauti guadagni per ordini religiosi ed enti ecclesiastici.


Basti ricordare in questa sede le fresche ma sempiterne polemiche sull'impegno dei cattolici in politica, i benefici fiscali per la Chiesa, il mancato pagamento dell’ICI per le attività turistiche e commerciali, l’otto per mille segreto, i misteri dello Ior, le sovvenzioni alle scuole cattoliche e gli scandali legati alla pedofilia per ottenere un quadro desolante sui concetti di corretta gestione delle risorse pubbliche e laicità dello Stato.


Prima delle elezioni generali del 1913, “L’asino” fu tra i primi giornali a rivelare l’accordo tra Giolitti e i cattolici, passato alla storia col nome di patto Gentiloni, come non mancò di prevedere la svolta a destra del 1914, con la formazione del ministero Salandra. Successivamente, Podrecca accentuò la sua involuzione in senso nazionalistico, iniziata al tempo dell’impresa di Tripoli, collaborando al “Popolo d’Italia” e presentandosi, nelle elezioni del 1919, nella lista fascista presentata a Milano insieme a Mussolini e Marinetti.


Galantara tenne invece in vita “L’Asino”, che continuò coraggiosamente a lottare contro il fascismo anche dopo la marcia su Roma, con le celebri caricature di Mussolini. La reazione fascista si scatenò e rese sempre più difficile la vita per il giornale, fino a costringerlo a cessare definitivamente le pubblicazioni nella primavera del 1925. Galantara, che collaborava con le sue vignette anche al giornale satirico antifascista “Il becco giallo”, fu arrestato nel 1926, rilasciato nel 1927 e visse in libertà vigilata fino al 1937. Negli ultimi anni della sua vita continuò a collaborare al giornale umoristico “Marc’Aurelio”, con vignette anonime.


Le lezioni che possiamo trarre da questa lunga disamina sono almeno tre. In primo luogo, le questioni al centro del malgoverno italiano sono sempre le stesse: corruzione atavica, malcostume diffuso, ambiguità cancerosa nei rapporti tra Stato e Chiesa, giustizia classista e inefficace. In conseguenza di ciò, i potenti che finiscono sotto la lente della satira, intransigente e moralizzatrice, reagiscono in due modi: cooptando i ribelli nelle proprie file, come fece il fascismo con Podrecca, oppure mandando le squadracce in redazione, fisicamente o metaforicamente, come fecero con Galantara, quindi costringendo a interrompere le pubblicazioni (o le trasmissioni) con la violenza.


Berlusconi, oltre a confermare pienamente modalità di malgoverno e oscurantismi storicamente consolidati, ha aggiunto una terza, magistrale lezione: disinnescare la satira sorpassandola a destra. Nonostante le lodevoli intenzioni, oggi “Il Male” non graffia perché il bersaglio delle sue catilinarie è ridicolo di per sé. Perché la torta in faccia funzioni, serve almeno un’eccellenza, una qualche forma di autorevolezza da scalfire: una condizione che il Cavalier Patonza oggi si sognerebbe. Purtroppo per lui, prestigio e stima non si possono comprare, neanche se ti chiami Berlusconi.

sabato 1 ottobre 2011

Dieci segnali che il tuo Paese è in crisi


10. L’agenzia di rating che lo valuta cambia ragione sociale. Da “Standard & Poor's” a “Poor's”.

9. Un ex igienista dentale si occupa della “questione molare”.


8. L’unico mercato liberalizzato dal governo è quello delle vacche.


7. Potrai sapere quando andare in pensione con un Gratta e Vinci.

6. Dalla maggioranza silenziosa è passato alla maggiorata silenziosa.


5. Il partito più votato anziché le primarie fa i “preliminari”.


4. Si potranno convertire le miglia Alitalia in rate del mutuo.


3. Il tuo Presidente del Consiglio parla da un cellulare peruviano.


2. Il Ministro dell’Economia e delle Finanze ritira il suo stipendio in banconote di piccolo taglio.


1. L’unica grande opera realizzata in 20 anni è un tunnel per neutrini da Ginevra al Gran Sasso.

domenica 25 settembre 2011

“Carnage” e “Contagion”, in equilibrio sulla crisi


Questa opinione contiene "spoiler", ovvero riferimenti alla trama del film che possono rovinarne la visione a chi non lo ha ancora visto.

Era il 7 agosto del 1974 quando Philippe Petit camminò su una corda spessa meno di tre centimetri tra le Torri Gemelle di New York, a 417 metri d'altezza e senza sistemi di sicurezza. Petit era piccolo nel vuoto come oggi è piccolo l’Impero Occidentale, crollato in quel 2001, fisicamente per la barbarie terrorista e simbolicamente per l’inesorabile avanzare dei nuovimondi.

Precipitiamo senza paracadute, si sgretolano l’economia e la fiducia e con loro i nostri valori e i codici identitari più profondi. Due film, apparentemente diversi, si parlano e ci parlano di quest’equilibrio precario, di questa fragilità, nella quale un episodio qualsiasi, un piccolo incidente o una tragica fatalità, possono mettere in discussione i pilastri della convivenza civile, facendo emergere un’aggressività tribale ed egoista.

Nel film di Polanski, la miccia è un bastone che finisce sui denti di un undicenne nel corso di una rissa tra ragazzini: l’infortunio rivela la vera natura dei rispettivi genitori, facendo affiorare, in un crescendo claustrofobico, conflittualità sopite e ansie non devitalizzate. Nel film di Soderbergh, una pandemia, originatasi per un casuale contatto tra due animali, si sta diffondendo in tutto il mondo, con un contagio rapido e mortale: le ombre della paura sfidano la solidarietà, obbligando a bassezze e prepotenze per salvarsi dall’agente patogeno.


Il lieto fine non è più così scontato, anzi inquieta proprio in quanto c’è. I due bambini giocano di nuovo al parco, inopinatamente senza prendersi a mazzate, mentre il loro criceto scorrazza allegramente; il miracoloso vaccino contro il nuovo e imprevedibile virus è stato finalmente prodotto e distribuito. Ma sappiamo che si tratta di un equilibrio precario. E che, alle due estremità della corda su cui camminiamo, potrebbe non esserci ormai più alcun appiglio.

sabato 17 settembre 2011

La serva serve

Lui chiama, Lei obbedisce. Un rapporto di potere arcaico e attualissimo, un modello patriarcale e familista, espressione secolare del cattolicesimo e del fascismo, diventa finalmente paradigma grazie al destino beffardo che ha assegnato la Direzione Generale della Rai a Lorenza Lei: un pronome, una garanzia.

Fanno sorridere le ansie palingenetiche di chi vede nella diversity un motore della società, nell’ingenua illusione che una donna, piazzata ai vertici dello Stato o di qualche Azienda, possa fare bene e innovare, in virtù semplicemente delle qualità anagrafiche, per le quali non ha alcun merito proprio.


Con femminile efficienza, l’Aufseherin di viale Mazzini è riuscita laddove Masi, il Gil Cagnè del management nostrano, aveva fallito: incurante delle leggi della democrazia e del mercato, ha fatto fuori i pezzi da novanta della televisione pubblica, che garantivano alti ascolti e pluralismo editoriale (“Vieni via con me”, “Annozero”, “Parla con me”), oltre ad aver cacciato il Direttore di Rai 3 Ruffini.

Rimangono così senza voce, e senza il diritto di veder rappresentate le loro idee nella tv (che dovrebbe essere) di tutti, i 9 milioni di telespettatori che seguivano Fazio e Saviano e i 6 che seguivano Santoro. Con un colpo solo, l’evangelica pupilla dei cardinali Bagnasco e Bertone fa un favore politico a B., eliminando le voci scomode (ma confermando la trimurti delle libertà Minzolini-Ferrara-Vespa), e un favore commerciale al Biscione, indebolendosi di fronte alla concorrenza.

I liberali e i democratici a corrente alternata, in questa Penisola che non c’è, dovrebbero inorridire per almeno due ragioni. Dal punto di vista economico, la servetta in tailleur viene pagata coi nostri soldi per distruggere, dal di dentro come un cancro, l’Azienda che dovrebbe guidare. Dal punto di vista democratico, chiudere un giornale, o una trasmissione di grande successo, solo perché sgraditi, diventa un atto autenticamente fascista. Senza libera circolazione delle idee, non c’è vera democrazia.

Ci sono le olgettine, che offrono al capo tette e culi. E c’è chi, volendosi vendere, ma non avendo altro, mette a disposizione il cervello - la coscienza no, quella non a tutti è data. E’ solo un fatto di denominazione, basta mettersi d’accordo: per favore, non chiamiamoli direttori. Sono diversamente escort.

sabato 6 agosto 2011

Partire sempre, arrivare mai

Nepal e Vietnam, deserto di Atacama, Australia e Nuova Zelanda, oltre a formazioni rocciose, foreste pietrificate, barriere coralline e favelas di varia estrazione. Sono le risposte alla domanda, temeraria ma inevitabile, che risuona in questi giorni negli uffici, in metro, nei bar: “Dove vai in vacanza?”. Chi ti risponde lo fa con un lampo luciferino negli occhi, preventivamente eccitato dall’ammirazione che la meta delle sue ferie esoticheggianti dovrebbe suscitare.

Fanno la vita del sorcio tutto l’anno, poi a un certo punto si sentono Tiziano Terzani, scoprendosi terzomondisti, difensori della biodiversità e proclamatori indefessi dei diritti dell’uomo: Indiana Jones all’amatriciana, sono le vittime della Lonely Planet, dicono di detestare il turismo di massa ma ne fanno parte integrante e contribuiscono ad alimentarlo. Una volta, per il racconto del mondo, ci si affidava ai resoconti di romanzieri e corrispondenti: oggi una democratizzazione fasulla, unita a un’ansia di protagonismo da reality show, portano a voler vedere tutto subito e in prima persona, peraltro rovinando quegli stessi siti che, a parole, si dice di voler preservare.

I voli low cost hanno reso abbordabili destinazioni una volta riservate esclusivamente ai viaggiatori di professione, che possono permettersi di trattenersi diversi mesi nello stesso posto, o ritornarci spesso, per penetrarne l’essenza: vederlo nelle diverse stagioni, mescolarsi alle abitudini locali, frequentare le persone e i luoghi, leggere e documentarsi.

Il turista Lonely invece è generalmente uno stipendiato che può permettersi un paio di settimane di ferie l’anno e con quelle pretende di conoscere l’orbe terracqueo: ogni anno una destinazione diversa, piantando le bandierine nei vari Paesi come in un enorme Risiko, tra l’altro gravido di inutili emissioni di C02. Vanno nei posti senza esserci davvero stati: due settimane a calci nel sedere e la Cina è fatta, altre due l’anno prossimo e anche l’India ce la siamo tolta: avanti il prossimo. Uno scatto a piazza Tienanmen, poi via verso la Grande Muraglia: un Paese da un miliardo di persone viene visitato in un lasso di tempo buono per conoscere le Marche. E neanche tutte.

Pauperisti di maniera, scattano affannosamente foto a ogni latitudine per far vedere agli amici quanto sono cosmopoliti e le pubblicano su Facebook, meglio se in tempo reale, direttamente dai similposti in cui credono di trovarsi: la superficialità di questi Vasco da Gama un tanto al chilo è pari solo alla loro presunzione. Il semplice fatto di smanettare un po’ su internet, prenotando ogni volta destinazioni sempre più di nicchia, o presunte tali, li fa sentire meglio: ostentano sedicente spessore morale, autocertificata profondità d’animo e, soprattutto, improbabile conoscenza di costumi locali. Come Zelig, diventano sunniti in Medio Oriente, mandarini in Asia e tanghèri in Argentina: in realtà hanno in testa quattro concetti letti in aereo e appiccicati con lo sputo, studiandosi in due ore la storia della Francia, da Vercingetorige a Sarkozy. C’est tout.

Il tono ispirato con cui raccontano le loro trasferte, una volta rientrati in città, suscita invidia negli incauti e ilarità negli avveduti. Questi ultimi sanno che il vero lusso da concedersi è la lentezza: date le risorse disponibili, scelgono alcuni luoghi per affinità o curiosità, approfondendo palmo a palmo, possibilmente ritornandoci, con passione, esperienza, consapevolezza. Il piacere della conoscenza è inversamente proporzionale al dovere del check-in, quasi fosse un tornello d’ufficio, spostandosi senza una bussola; come diceva Seneca, non ci sono venti favorevoli per il marinaio che non sa dove andare.

L’autentico viaggiatore sa esserlo anche sotto casa - oltre che dentro sé stesso: gli esploratori Ryanair partono senza arrivare, si spostano ma non viaggiano, avventurandosi in una velleitaria quanto infondata conquista del pianeta, da Vitorchiano a Saigon, senza conoscere i segreti del proprio Paese, i dintorni della propria regione, gli angoli più nascosti e appaganti della propria città. La lapide su questo dilagante esotismo a tutti i costi l’ha scritta il comico Enrico Brignano, in un suo monologo di illuminante saggezza popolare: “Ma quale tè nel deserto … Io non riesco a prendere neanche un caffè in centro”.

mercoledì 29 giugno 2011

Sansone Sansonetti

Tra i vari personaggi in cerca d’autore che popolano i talk-show politici, ora fortunatamente chiusi per ferie, ce n’è uno che brilla per pirandelliano estro creativo: è Piero Sansonetti. Perfetto prototipo estetico del giornalista di sinistra, è spesso chiamato da “Porta a porta”, “Matrix”, “Zapping”, complemento d’arredo ideale per la scenografia politica: barba incolta e brizzolata, capello arruffato, giacca di velluto stazzonata.

Manco a dirlo, le esternazioni del suddetto risultano spesso curiosamente funzionali alla causa della parte avversa: una manna dal cielo per i vari Vespa, Vinci e Forbice, ai quali non pare vero di poter ospitare una reincarnazione di Bertinotti e della gauche salottiera che, in realtà, conciona e arringa a senso unico, in accorata difesa delle istanze del principale.

Frutto avvelenato della par condicio, il nostro accumula gettoni di insperata visibilità, grazie all’atteggiamento furbescamente gattopardesco che, nei suoi interventi, gli fa sempre dare cinque colpi al cerchio e uno alla botte (le apparenze vanno pur salvate). Passata la sbornia dei referendum, sarebbe bello, nella prossima stagione, lasciare al loro destino questi talk-show da legge Merlin, i loro tenutari e i tristi comprimari che li affollano.

Simili trucchetti catodici sanno di muffa, di marcio e, soprattutto, noi non abbiamo più tempo da perdere. Come Sansone, l’eroe biblico che, una volta privato della sua capigliatura, perse la sua forza prodigiosa, un Sansonetti qualsiasi, privato della barba, perderebbe la sua unica ragione di esistere televisiva: finalmente glabro, potrebbe fare outing e dichiarare apertamente la sua passione berlusconiana. Di fronte, stavolta, a una platea vuota.

sabato 21 maggio 2011

Contro Current


LA RISPOSTA DI SKY

A Sky Italia abbiamo stima per Current TV e per Al Gore. Per questo motivo lo scorso 13 maggio abbiamo fatto al suo socio, Joel Hyatt, un’offerta per continuare ad avere Current per altri tre anni su Sky (vedi allegato). Non corrisponde dunque affatto al vero che Sky abbia deciso unilateralmente di cancellare il canale.

Purtroppo, Joel ha deciso di non accettare la nostra offerta e ha chiesto invece di avere il doppio di quanto Current percepisce attualmente, una cifra che arriva ad essere vicina a 10 milioni di dollari. Si tratta di una richiesta decisamente troppo alta, specie in relazione alle recenti performance del canale. Al Gore ha diffuso dati assolutamente inesatti sull’audience del canale, sostenendo che un abbonato di Sky su due guarda Current una volta la settimana. La realtà, purtroppo, è assai diversa: i dati Auditel dicono che solo un abbonato di Sky su 25 ha guardato Current almeno per 10 minuti in una settimana nel corso del 2011. Lo share del canale è dello 0,03% su media giornaliera e dello 0,02% in prima serata con una media giornaliera di 2.959 telespettatori, come rilevato da Auditel nel 2011. Si tratta di dati in calo del 20% sulla media giornaliera e addirittura del 40% in prima serata, se comparati al 2010. Se il canale avesse raggiunto l’obiettivo di 4500 telespettatori medi giornalieri, concordato nel contratto, la partnership sarebbe stata rinnovata automaticamente per ulteriori due anni.

Quanto al resto, sono sciocchezze: ho dovuto cercare su Google il nome di Keith Olbermann perché non sapevo chi fosse. La decisione di non rinnovare il contratto con Current quindi non è dovuta ad alcuna cospirazione politica: si tratta semplicemente di una trattativa economica, che ho gestito io con la mia squadra in Italia. Non ho mai parlato con Rupert Murdoch di nessuno di questi temi. E Silvio Berlusconi non ha mai promesso a Sky nessuna frequenza digitale terrestre se ci fossimo liberati di Al Gore. Sfortunatamente Al Gore in Italia non è così rilevante.


Come dimostra la nostra proposta, abbiamo fatto l’offerta più adeguata per il rinnovo del contratto con il canale. Se Al Gore è così convinto del successo di Current non dovrebbe avere alcun problema a trovare risorse finanziarie, dal momento che una televisione di successo si porta dietro anche maggiori introiti pubblicitari. Sia Al che Joel sono operatori molto esperti del settore della tv via cavo negli Stati Uniti. Tutto ciò rappresenta una pratica negoziale consolidata negli Stati Uniti.


Dunque se davvero desidera che Current Tv rimanga in Italia, scriva a Joel Hyatt a hyatt@current.com e gli chieda – con la stessa determinazione con cui ha scritto a me – di accettare la nostra offerta, come hanno fatto tantissimi suoi colleghi editori, e noi saremo molto felici di avere Current TV su Sky per altri tre anni.


Cordialmente,

Tom Mockridge

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LA MIA RISPOSTA A SKY
 
Cortese Mr. Mockridge,

sono abbonato Sky da molti anni. Finora non vi avevo mai scritto per lamentarmi anche se ritengo, ad esempio, che il livello della programmazione cinematografica si stia visibilmente deteriorando, in particolare per quanto riguarda i film di qualità (per fare un esempio, MGM non vale Studio Universal).

In questo caso, tuttavia, ritengo giusto far sentire la mia (nostra) voce: pago l'abbonamento proprio per non vedere applicata sul satellite la stessa logica devastante dell'audience che ha ridotto le nostre reti generaliste allo stato che oggi ben conosciamo. Mi aspetto di trovare nel vostro bouquet voci fuori dal coro, spazi liberi di testimonianza, sperimentazione, anche se seguiti da una minoranza.


La programmazione di Current non può essere mainstream, anche se la sua vocazione editoriale, orientata all'inchiesta e all'approfondimento, andrebbe incoraggiata (vedi il caso di successo di Report). Dovreste aver capito che la tv di Al Gore ha un valore simbolico proprio in Italia, vista la sconcezza di un trust televisivo e di un conflitto d'interessi senza eguali, che riducono al lumicino il pluralismo e la libertà di espressione.


Se le richieste contrattuali sono esose, contrattate: è il vostro mestiere, non il nostro. Spegnendo Current, togliete a molti una delle pochissime possibilità residue di sentire in tv una voce indipendente. Se non capite questo, vuole dire che non avete la sensibilità, editoriale e di marketing prima che politica, per comprendere appieno il Paese in cui operate e la deprimente situazione in cui attualmente versa. Tanto vale mettere, al posto vostro, un dispositivo automatico che, quando l'audience scende al di sotto di un certo livello, invia automaticamente le lettere di disdetta alle varie reti. No, un buon palinsesto per il satellite, articolato e pluralista, non si fa così.


Giulio Lo Iacono

venerdì 29 aprile 2011

Habemus Papi


Karol Wojtyla, pontefice prossimo alla beatificazione, era un attore. Lui stesso, nel libro autobiografico Dono e mistero ricorda i suoi esordi teatrali: "Nel periodo del ginnasio ero preso soprattutto dalla passione per la letteratura, in particolare per quella drammatica, e per il teatro". Con il suo carisma, egli divenne un emblema per credenti e laici, passando alla storia come il Papa che sconfisse il comunismo.

Melville (Michel Piccoli), invece, non è mai stato un attore. Avrebbe voluto esserlo, ma il pudore di rappresentarsi ha vinto, facendogli sempre mancare il suo posto in palcoscenico, incluso quello più importante. Il pubblico dei fedeli, senza il suo protagonista, rimane spaesato, seduto in platea di fronte all’angoscia di un palco vuoto: un gregge senza pastore.


La complessità della vita è, per molti, inaccettabile: la ricerca di una guida, o della sua miglior rappresentazione possibile, diviene quindi un elemento di catarsi, intesa come purificazione, quasi un rituale magico, un sogno collettivo ad occhi aperti. In ambito psicoterapeutico, il metodo catartico indica la liberazione di emozioni in pazienti ansiosi, grazie al recupero di particolari pensieri o ricordi biografici. La psicanalisi è, tuttavia, un’arma spuntata: il personaggio interpretato da Moretti è prigioniero di una scienza ormai autoreferenziale e dogmatica, quanto la fede di Melville è invece vivificata da dubbi e ricerca di autenticità.


Se la folla di piazza San Pietro, alla ricerca di purificazione spirituale, rimane delusa, le persone che affollano i cinema per vedere Habemus Papam, possono godersi il piacere della rappresentazione scenica che procura una purificazione dei simili: passioni dello spettatore e passioni rappresentate. Nella Politica Aristotele aveva trattato della catarsi generata dalla musica che induce alla riflessione e che libera dalle fatiche quotidiane: in questo senso, il film stesso, e più in generale il cinema, divengono un formidabile veicolo di illusione e di catarsi artistica, e il regista/autore una forma più evoluta di “capo” per “folle che vogliono obbedire”.


I meccanismi di rappresentazione del potere sono analoghi, nella fede come in politica: in questi anni ci siamo abituati alle doti istrioniche, per molti seducenti, di una leadership basata essenzialmente sulla finzione. Il vero leader prende le distanze dai rituali del “teatrino” per poi essere protagonista dell’unico, autentico “teatro”: il suo. Diviene leader dell’antipolitica per fare vent’anni il capo del governo; oppure pontefice dai modi familiari e inconsueti per poi divenire l’incarnazione più autentica, innovatrice nella forma quanto conservatrice nella sostanza, del Vicario di Cristo. Allo stesso modo, su un altro livello, si situano lo spietato amministratore delegato che nasconde il suo pugno di ferro dietro un rassicurante golfino blu, oppure l’allenatore, famoso e strapagato, che contesta i meccanismi del calcio di cui è il più egocentrico esponente.


Dietro le tende mosse dal vento di quella finestra di Piazza San Pietro, il gesto, interpretato da molti come quello di un vigliacco, diviene l’attestazione di un coraggio non comune: quello di un uomo che non vuole ingannare i suoi fratelli e le sue sorelle con una rappresentazione teatrale insincera. In questo senso, il debole diventa forte e lo sconfitto, vincitore: messaggio vero del cristianesimo ma, al tempo stesso, potente metafora di una società senza più guida nè punti di riferimento.

giovedì 17 marzo 2011

Sindrome giapponese

Non riesco a staccarmi dalla Situation Room che, sulla CNN, aggiorna in tempo reale sul Giappone. I tranquilli villaggi di pescatori e le violente devastazioni che li hanno sconquassati mi fanno tornare in mente il Giappone disegnato della mia infanzia, piena di cartoni animati popolati di orribili mostri che, improvvisamente, distruggevano tutto, come nel peggiore tsunami. Poi però arrivava Mazinga (ma, in giapponese, significa “demonio” e jin significa “dio”: può essere usato per il male e per il bene) che li sconfiggeva, rimettendo le cose al loro posto e facendo trionfare la Giustizia e la Pace.

L’incubo nucleare di Hiroshima e Nagasaki aveva prodotto, nella fantasia post-bellica degli anime nipponici, la nascita di creature geneticamente mutate, anomali e deformi, come Godzilla, che calpesta intere città uccidendo esseri umani come mosche. Successivamente, la fiducia nel progresso e nelle proprie capacità tecnologiche aveva accompagnato l’epopea del Giappone terza potenza economica mondiale: sofisticati robot giganti, pilotati dall’uomo, superavano qualsiasi sfida, confrontandosi con i Micenei, epigoni distorti del mito del Colosso di Rodi, esseri metà umanoidi e metà bestie, assurdi, disfunzionali e asimmetrici, con la testa sulla pancia o addirittura sul pomello di un bastone.

Oggi nel nostro Paese è (o dovrebbe essere) una giornata di festa. Almeno per un giorno, lasciatemi immaginare che, al contrario di un’Italia sazia e impaurita, incapace persino di scegliere la data per celebrarsi (confusa tra 17 marzo, 25 aprile, 2 giugno, 20 settembre e 4 novembre), l’Impero del Sol Levante stia trovando, da qualche parte, la forza per rialzarsi. Almeno oggi, lasciatemi sognare che, dal laboratorio del Monte Fuji (che poi nel cartone si chiamava Centro Ricerche sull’Energia Fotoatomica) o dalla Fortezza delle Scienze (altro nome paradigmatico), il Grande Mazinga si stia librando in volo sul cielo viola e marrone di Fukushima, giusto in tempo per sconfiggere l’Imperatore delle Tenebre.

domenica 6 marzo 2011

Sana e robusta prostituzione

A pochi giorni dalle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, si consuma la vendetta dell’Impero austro-ungarico: Ruby Rubacuori è stata una delle ospiti più ammirate del ballo delle debuttanti di Vienna, ospite (manco a dirlo) di un ricchissimo imprenditore locale. Qui è in compagnia del celebre J.R. e la foto è emblematica: rappresenta l’avventuroso inizio e l’inglorioso declino dell’epopea berlusconiana.

Da “Dallas” a “Dalla!”, dalle maggiorenni minorate alle minorenni maggiorate: gli argomenti trattati nel telefilm (ricchezza, sesso, intrighi e lotte senza esclusione di colpi per il potere) sono passati direttamente dal ranch del Texas alla villa di Arcore. Una storia che per noi è diventata la Storia, lo scivolamento progressivo dalla fiction degli anni Ottanta alla realtà dei giorni nostri. Almeno “Dallas” era una serie. Qui le cose serie sono rimaste ben poche.

sabato 5 marzo 2011

Dietro la porta


Parigi. In un elegante palazzo dell’alta borghesia, abitato da ministri e maîtres à penser, la portinaia Renée osserva dalla sua guardiola il quotidiano incedere di quell’umanità fatua e benestante, vicina eppure lontana. Finta teledipendente, in realtà colta e curiosa autodidatta, la concierge si nasconde dietro gli aculei di una sciatteria esibita e scorbutica, pur di compiacere le aspettative classiste dei suoi facoltosi condòmini, che mal sopporterebbero una custode con insidiose pretese intellettuali.

Il riccio, tratto dal bel romanzo di Muriel Barbery, smaschera così l’ipocrisia radical-chic di un ceto dirigente che si riempie la bocca di progresso sociale ma nasconde le cicche sotto il tappeto e preferisce socchiudere la porta dietro di sé piuttosto che far varcare l’uscio di casa propria dalla corpulenta esponente del proletariato del rez-de-chaussée. Doppiezze e piccole arroganze vengono colte da Paloma, dodicenne geniale che vive con malessere il perbenismo della sua famiglia di origine e vede la vita con altri occhi, quelli di una vecchia videocamera con cui viviseziona prepotenze e conformismi di quel mondo ovattato.

I soli lampi di umanità e cortesia, nel grigiore parigino, arrivano dal nuovo inquilino Kakuro Ozu, anima gentile e ricco signore, refolo di grazia orientale in una società francese sempre più decrepita e ripiegata su sé stessa. Gli basta una battuta per scoprire la reale indole di Renée che finalmente, a cinquantaquattro anni, può contare di nuovo sul conforto di un sorriso complice e sull’affetto della stessa Paloma, alla ricerca di un’esistenza più sincera. I gatti, in questo microcosmo condominiale, rispecchiano deliziosamente i caratteri dei loro padroni: selvatico quello della portinaia, altezzosi e viziati quelli della famiglia borghese, agili ed eleganti quelli del manager giapponese.


La vita comincia finalmente a filtrare dalle persiane di quel piano terra. Tra Anna Karenina e un atrio da spazzolare, la posta da distribuire e una tavoletta di cioccolato, Renée esce a passeggio con la bambina e, come in una sinistra profezia, le dice di stare attenta ad attraversare la strada. Non si vergogna più del piacere di leggere e fantasticare: per la prima volta, la riservata portinaia dimentica aperta la porta della sua tana-biblioteca. Era finalmente pronta ad amare.


Film bello, profondo e delicato, anche se avrei preferito una conclusione più confortante, che incoraggiasse l’insolita e virtuosa ascesa sociale e umana di una lavoratrice che invece, appena ha osato salire al quinto piano, ha visto il suo destino marchiato da una lavandaia scontrosa. Quanto sarebbe stato dolce un finale sospeso, con lo strano incontro di quelle tre solitudini in incognito, unite dall’ironia, dalla curiosità, dall’anticonformismo. Segnate dalla voglia di uscire per un po’ da quella maledetta boccia di vetro come è riuscito a fare, alla fine, soltanto l’eroico pesce rosso.

sabato 26 febbraio 2011

Raìs. Di tutto, di meno.


Ci troviamo spesso, nostro malgrado, a parlar male della Rai: lottizzazione, servilismo, scarsa libertà creativa, elefantiasi. Ci fa piacere, una volta tanto, riuscire a tesserne le lodi: da quando, lunedì scorso, si è drammaticamente inasprita la crisi libica, va onestamente riconosciuto che il palinsesto è stato opportunamente rivoluzionato, per raccontare l’evolversi degli avvenimenti, rispettando pienamente la missione di servizio pubblico televisivo.

Bombardamenti sulla folla, fosse comuni, esecuzioni dei feriti negli ospedali: per tutta la settimana, man mano che si accavallavano le angosciose notizie da Tripoli, almeno una prima serata delle tre reti Rai è stata dedicata a speciali e approfondimenti. Su Rai Uno, ogni sera sembrava quasi di essere sul posto, tra la folla e la piazza Verde: collegamenti in diretta, testimonianze inedite, immagini emblematiche destinate a essere ricordate a lungo.

Le centinaia di giornalisti della tv di Stato, inviati e corrispondenti, superando le sterili divisioni tra testate, hanno fatto gioco di squadra per offrire al telespettatore un’analisi accurata dei fatti che stanno avvenendo a 70 km dalle nostre coste. In studio, nessun politico italiano è stato invitato per evitare strumentalizzazioni. Solo schede filmate, realizzate con scrupolo e commentate da esperti neutrali: il resoconto minuto per minuto, le reazioni internazionali, gli interessi economici italiani in Libia (e quelli libici in Italia), il peso energetico del Nord Africa, la possibile emergenza immigrazione, la rivoluzione del mondo arabo che ha coinvolto anche Egitto e Tunisia.


In un’ideale staffetta televisiva da Rai Uno a Rai Due si passava dalla cronaca alla storia: uno speciale curato da Giovanni Minoli ricostruiva la colonizzazione italiana, durata ufficialmente dal 1911 al 1947. Molti italiani non sapevano che fu il primo ministro Giovanni Giolitti ad iniziare la conquista della Tripolitania e della Cirenaica, inviando le truppe italiane contro l'Impero Ottomano. L'opinione pubblica dell'epoca veniva galvanizzata al suono di Tripoli bel suol d'amore, popolare marcetta patriottica portata al successo dalla bellissima chanteuse Gea della Garisenda, poi moglie discreta dell’industriale Borsalino. L'ascesa al potere del fascismo determinò un inasprirsi della politica italiana di conquista di quei territori: migliaia di morti, deportazioni, campi di concentramento, sgomberi e rappresaglie spianarono la strada alla creazione del Governatorato di quella che Mussolini chiamava “la quarta sponda d’Italia”.


Dopo i massacri, il Regno d'Italia avviò una colonizzazione che ebbe il suo culmine verso la metà degli anni Trenta con un afflusso di coloni provenienti in particolare da Veneto, Sicilia, Calabria e Basilicata. Nel 1939 gli italiani erano il 13% della popolazione, concentrati nella costa intorno a Tripoli e Bengasi (dove erano rispettivamente il 37% ed il 31% della popolazione). In Libia gli italiani costruirono infrastrutture degne di nota (strade, ponti, ferrovie, ospedali, porti, edifici, e altro ancora) e l'economia libica ne ricevette benefici effetti. Anche l'archeologia fiorì: città romane scomparse (come Leptis Magna e Sabratha) furono riscoperte ed indicate come simbolo del diritto italiano a possedere la Libia già romana.


Il turismo venne particolarmente curato con la istituzione dell'ETAL, Ente turistico alberghiero della Libia, il quale gestiva alberghi, linee di autopullman di gran turismo, spettacoli teatrali e musicali nel teatro romano di Sabratha, il Gran Premio automobilistico della Mellaha (detto internazionalmente "Tripoli Grand Prix" e disputato dal 1925 al 1940), una suggestiva località entro le oasi tripoline.


All'inizio della seconda guerra mondiale vi erano circa 120.000 Italiani in Libia. Il Governatore Italo Balbo nel 1940 aveva costruito 400 km di nuove ferrovie e 4.000 km di nuove strade (la più nota era la Via Balbia col suo nome, che andava lungo la costa da Tripoli a Tobruk). A partire dal 1937, il governo italiano aveva avviato un processo di integrazione completa della Libia nel Regno: la Libia si avviava infatti a trasformarsi da colonia a regione geografica Italiana parificata alle altre. Questo processo iniziò con la proclamazione delle 4 province di Tripoli (TL), Bengasi (BE), Misurata (MU), Derna (DE). Il 9 gennaio del 1939 la colonia della Libia fu incorporata nel territorio metropolitano del Regno d'Italia e conseguentemente considerata parte della Grande Italia.


Dopo l'eventuale vittoria contro gli Alleati, la Libia doveva essere parte del progetto fascista di una Grande Italia nella sua sezione costiera (arancione), mentre l'interno sahariano doveva fare parte dell' Impero Italiano (verde).

Il 3 novembre 1938, l'Eiar, antenata della stessa Rai, trasmise una radiocronaca da Tripoli in occasione dell'arrivo dei primi 20.000 italiani per la colonizzazione demografica della Libia; il 12 sarà attivata una stazione radiofonica, Radio Tripoli, la cui base trasmittente era a Zanzur, una quindicina di chilometri dalla capitale, mentre il centro direzionale con auditorio e apparati era nei locali della Fiera, che nel periodo bellico non ospitava nessuna manifestazione. I vari ricevitori permettevano il collegamento con la sede di Roma. Le trasmissioni erano dalle 7 alle 23 in italiano e arabo su 1104 kHz con la ragguardevole potenza, per le onde medie di allora, di 50 kW. In Italia, l'Eiar cominciò a trasmettere la lettura del Corano in arabo nel 1939, fatto che riprendeva il costume di Roma di dare la cittadinanza romana agli abitanti dei territori che man mano venivano annessi all'Impero.

La seconda guerra mondiale devastò la Libia italiana e costrinse i coloni italiani a lasciare in massa le loro proprietà. Nel Trattato di Pace del 1947 l'Italia ha dovuto rinunciare a tutte le sue colonie, compresa la Libia. Nel 1962 gli Italiani in Libia erano ancora circa 35.000. Ma dopo il colpo di stato del colonnello Gheddafi del 1969, circa 20.000 italiani furono costretti a cedere improvvisamente i propri beni e le proprie attività economiche il 7 ottobre 1970 (ancora oggi le varie associazioni di profughi e rimpatriati si battono per ottenere un risarcimento dallo Stato italiano). Nel 1986, dopo la crisi politica tra Stati Uniti e Libia, il numero degli italiani si ridusse ancora di più, raggiungendo il minimo storico di 1.500 persone, cioè meno dello 0,1% della popolazione.


La staffetta tra le reti proseguiva su Rai Tre, che ha giustamente programmato “Le rose del deserto”, l’ultimo film girato da Monicelli: nell’estate del 1940, durante la campagna del Nord Africa, una sezione sanitaria del Regio Esercito italiano si accampa a Sorman, una sperduta oasi nel deserto della Libia. La guerra lì appare come lontana, e ognuno cerca svago come può, il maggiore Strucchi (Alessandro Haber) scrivendo lettere alla giovane moglie, il tenente Salvi (Giorgio Pasotti) dedicandosi all'hobby della fotografia. Assieme ad un frate italiano (Michele Placido) i militari iniziano poi a prestare assistenza alla popolazione locale, bisognosa di cure mediche. Tutti sono convinti che la guerra finirà presto e che per Natale saranno a casa, ma arriva il momento della controffensiva inglese, che li costringerà a fare i conti con la realtà della guerra.


Ispirandosi allo stesso romanzo di Mario Tobino, “Il deserto della Libia”, vent’anni prima Dino Risi diresse “Scemo di guerra”. Il capitano Pilli (Coluche), pur con gravi disturbi mentali precedenti e indotti, si ritrova al comando di un'unità militare al fronte. Il sottotenente medico Lupi (Beppe Grillo), dotato di grande umanità e buon senso comune, comprende il disagio e il conseguente pericolo per tutti, ma nulla può fare di fronte a una trama di protezioni altolocate e interessi meschini, che valorizzano gerarchie e formalità burocratiche anziché le persone in una situazione limite come una guerra.


Grazie a questa programmazione lucida e articolata, i telespettatori sono stati informati dei fatti libici, potendo scegliere tra un taglio ispirato alla cronaca e agli approfondimenti, uno storico e uno culturale. La Rai è tornata grande, dimostrando che i palinsesti possono essere flessibili non solo quando si tratta di Pupo o Antonella Clerici, per controprogrammare Mediaset in una (finta) guerra degli ascolti, ma anche per raccontare in diretta una (vera) guerra civile. Pensate come sarebbe stato triste se, in queste sere, magari per nascondere un’amicizia imbarazzante tra Berlusconi e Gheddafi, non fosse andato in onda niente di tutto questo e avessero trasmesso, come niente fosse, “L’isola dei famosi” e le eterne, scialbe fiction consolatorie. Pensate che umiliazione per la Rai se, per scrivere queste righe, fossi dovuto ricorrere a Sky, Al Jazeera e consultare Wikipedia: saremmo diventati noi, a quel punto, la provincia dell'Impero.


lunedì 21 febbraio 2011

Tripoli bel suol d'orrore


Tripoli brucia, il Parlamento libico è in fiamme, i manifestanti vengono bombardati dall’aviazione e i morti si contano a centinaia. Con un incredibile effetto domino, il vento del Maghreb sta spazzando via in pochi giorni regimi e dispotismi al potere da decenni e travolge la residua credibilità del governo italiano, che ha puntellato fino all’ultimo autocrazie e raìs.

Abbiamo ancora negli occhi l’accoglienza, tronfia e trionfale, riservata solo pochi mesi fa a Gheddafi in visita a Roma: tenda beduina, amazzoni e Carosello dei Carabinieri, con la partecipazione di circa 130 cavalli e cavalieri dell’arma, due squadroni e una fanfara. Forse ispirata da una realpolitik affaristica tanto cinica quanto ingenua, la pagliacciata trascinò nel ridicolo la politica estera italiana.

Oggi la farsa si trasforma in tragedia: su quelle immagini, e sul successivo incredibile baciamano di Berlusconi al leader libico nel corso del vertice della Lega Araba a Sirte, si allungano il pugno di ferro della repressione del regime, le bombe e i razzi sparati sulla folla. Sono cose che possono accadere stipulando trattati di amicizia con un dittatore: la storia italiana dovrebbe avercelo insegnato.


Autoritarismi e tirannie si attraggono a vicenda, confondendo sè stessi con la nazione e stringendosi in un abbraccio mortale: non è la prima volta, non sarà l’ultima. Restano ancora da chiarire molte cose, in questa corsa improvvisa, veloce e disperata del mondo arabo verso la libertà: per esempio, il ruolo strategico degli Stati Uniti e del loro Presidente Barack Obama (ricordiamo il suo discorso all’Islam, tenutosi nel 2009 proprio all’Università del Cairo, nel quale il futuro Nobel per la pace proponeva un “nuovo inizio” al mondo musulmano, affermando tra l’altro che “la libertà di religione è centrale per la possibilità dei popoli di vivere insieme”) o la parte giocata dal “sesto potere”, rappresentato da internet e dai social network, nel travolgere censure e propagande.


L’unica cosa che appare veramente nitida è la miopia del governo italiano, la sua inadeguatezza politica e la totale, mancata comprensione delle istanze storiche di un continente e di una popolazione civile pronta a morire, a versare il suo sangue e ad affrontare a mani nude le pallottole di eserciti e mercenari, pur di liberarsi di quei dittatori con cui noi, fino a ieri, siglavamo intese e scambiavamo battute, tra cavalli berberi e Frecce tricolori.

domenica 20 febbraio 2011

So what?


L’altra sera mi trovavo a Madrid, a cena con la direttrice di un importante istituto di ricerca internazionale. Era il giorno del rinvio a giudizio di Berlusconi per cui cercavo, sul filo dell’attualità, di spiegarle l’antefatto, in particolare l’episodio della telefonata alla Questura. Lei, statunitense che vive e lavora a Francoforte, mi ha spiazzato con la sua mentalità anglo–tedesca: “So what?”

Ovvero: se anche fosse stata la nipote di Mubarak, cosa sarebbe cambiato? Se aveva rubato, avrebbe comunque dovuto pagare il suo conto con la giustizia. Un passaggio logico elementare in una comunità repubblicana civile diventa un affascinante esotismo giudiziario in una repubblica delle banane come la nostra.

Abituati come siamo a considerare parentele e raccomandazioni come utili lasciapassare per scroccare posti e prebende, le stesse forme di nepotismo vengono adesso pubblicamente invocate, dal Presidente del Consiglio, addirittura come attenuanti di un reato; il tutto nell’indifferenza generale. Siccome siamo uomini di mondo, il dibattito si è immediatamente spostato al livello successivo: era davvero convinto che fosse la consanguinea dell’(ex) presidente egiziano? Stava mentendo? Che rapporti c’erano tra i due?

Ipotizziamo che la cubista Ruby Rubacuori fosse realmente la nipote di Mubarak. Tanto basta a giustificare l’improvvida telefonata? Familiari, congiunti e affini di capi di stato stranieri possono venire tranquillamente a delinquere nel nostro Paese e non si può procedere nei loro confronti altrimenti si “rischia l’incidente diplomatico”? Scaltri retroscenisti e acuti dietrologi, noi italiani tendiamo sempre a vivisezionare quel che accade dietro le quinte ignorando quanto avviene sul palco principale: nel dibattito pubblico su questa squallida vicenda abbiamo tralasciato un piccolo dettaglio. Si chiama Stato di diritto.

sabato 19 febbraio 2011

Italo scialbo

Il premier non salva più la forma
Preferisce le forme alle riforme
Se arrivasse qualcuno a dire: “Tutti fermi!”
In molti metterebbero la firma
Gente arrogante ignorante ed irridente
Gente che non vede e che non sente
Gente sorda e cieca ma sicura
E’ così che nasce una dittatura
E’ un regime che non ammazza mica
Gli basta la spartizione della fica
E alla divisione dei poteri
Antepone quella dei sederi
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Consapevole profeta fu quel Dante
Predisse il presidente senza un dente
Che come stregone di laboratorio
Trasformò l’Italia in Purgatorio
Glorificava il governare e il fare
Stava solo allestendo il lupanare
La dignità deve togliersi di mezzo
Uomini e donne hanno tutti un prezzo
Mille, uno, dieci, cento
Facile comprare il Parlamento
Coi danè di una prima serata
Ti porti a casa qualche deputata
Al nuovo miracolo promesso
Ci crede ancora solo qualche fesso
Che idolatra solitario Berlusconi
Ingiallito oramai nelle affissioni
Illusione di democrazia
In un cartellone di periferia.

sabato 12 febbraio 2011

T.V.B.


Ore 7:00 Porn Flakes. Magazine del mattino. In diretta da via Olgettina.

Ore 8.00 Per la serie La storiella siamo noi, va in onda il documentario “Montesquieu: chi era costui? Dalla divisione dei poteri al potere della divisione”.

Ore 9:00 Il penefattore. Programma di solidarietà per giovani bisognose.


Ore 10:00 Geo & Gay. Spazio dedicato alla sinistra.


Ore 11.00 Cortesie per le ospiti.
Bonifici, assegni, contanti, collier, Rolex e pietre preziose in un tripudio di cortesia: niente pin, solo pen.

Ore 12.00 La signora in fallo


Ore 13.00 Il discorso del reo. Anteprima


Ore 14.00 Harem.


Ore 15.00 Cielline. Dopo Veline, il talent alla ricerca di nuove soubrette tra le giovani di Comunione e Liberazione. In diretta dal Pirellone; collegamenti da Rimini.


Ore 16.00 La pupa e il vecchione


Ore 17.00 Verissimissimo Ti giuro che è vero – Speciale Diritto alla privacy. Conduce Alfonso Signorini. Con Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Alessandro Sallusti, Claudio Brachino.


Ore 18.00 Lie to Italy. Gara tra sicofanti, mestatori, faccendieri e maneggioni a chi spara la palla più sesquipedale.


Ore 19.00 Tre nipoti e un maggiordomo. Con Ruby Rubacuori, Nicole Minetti, Michele Conceicao Dos Santos Oliveira e la partecipazione straordinaria di Carlo Rossella.


Ore 20.00 Tg (di) Uno.

Scaletta:
- Esclusivo: il giudice competente non è la Procura di Milano né il Tribunale dei Ministri. E’ Forum
- Berlusconi mostra di essere senza un dente. Un leader privo di molare.
- Cronaca: ampio servizio su bambini scomparsi, distrutti, bruciati, annegati, polverizzati, sciolti nell’acido, mangiati dai comunisti.
- Storia: le intercettazioni nella DDR
- Marchetta quotidiana: crociera, la vacanza preferita dagli italiani. 
- Curiosità: i delfini imparano a giocare a burraco e a guardare la tv. Dopo averne visto 5 minuti, distruggono lo schermo con un colpo di pinna. Il che dimostra che sono effettivamente più intelligenti degli esseri umani.

Ore 21.00 Law and Disorder

Alla stessa ora, verrà trasmesso il film “Baarìa” a circuito chiuso, nella città di Arcore.

Ore 21.30 Le mie pigioni. Sceneggiato. Di Silvio Pelvico.

Ore 22.00 Festivalbaro
Le canzoni in gara questa sera: “Stasera pago io” - “Nessuno mi può giudicare” – “Dieci ragazze” – “Se telefonando” - “Vengo anch’io”

Ore 23.00 Il corpo del reato. Docu-fiction. Con Ruby Rubacuori.


Ore 24.00 Elisir (di Bunga vita).
In questa puntata: seno e senilità.

domenica 6 febbraio 2011

Italia d'Egitto

Il dialogo tra la maggioranza e i vari esponenti dell’opposizione moderata sembra dare nuova linfa al percorso per le riforme costituzionali. Al termine dei colloqui, il governo ha annunciato un'intesa che stabilisce la road map della transizione. Nel frattempo, l’opposizione più radicale convoca nuove manifestazioni di piazza e si prevedono nuovi cortei di massa nei prossimi giorni. Le forze di opposizione più intransigenti si dichiarano insoddisfatte in quanto non è stata accolta la principale richiesta del movimento, la rimozione del despota, al potere da decenni. Preoccupa l’opinione pubblica internazionale la crescente pressione esercitata dal governo sul web, sui mezzi di informazione e, più in generale, sulle comunicazioni: al riguardo, il regime ha dichiarato che non accetterà pressioni straniere. Il Gruppo per la Giustizia e la Libertà vede con favore la formazione di un governo di unità nazionale per garantire una transizione pacifica del potere e la riforma costituzionale. Forte preoccupazione anche per i siti archeologici, una delle principali fonti di ricchezza del Paese, ultimamente deserti e lasciati in uno stato di desolante abbandono.

Abbiamo appena trasmesso le ultime notizie dall’Italia. D’Egitto.

Democrazia allo sbaraglio


Ieri guardavo in tv la bella manifestazione di Libertà e Giustizia, facce pulite, gente perbene, intellettuali, la parte migliore dell'Italia; anche se, come al solito, alla sacrosanta richiesta di dimissioni non corrisponde un'alternativa concreta e spendibile politicamente. Poi, la sera, mi sono imbattuto in alcune scene de La corrida.

Sono rimasto stupito di fronte alla gran quantità di figurette provinciali, che sembravano uscite dall'Italia degli anni '50, pronti a immolarsi in mediocri esibizioni. Operai in pensione, disoccupati, estetiste e lavoratori ortofrutticoli sfidano i fischi e i campanacci riproponendo improbabili danze popolari, facendo le pernacchie con le ascelle, imitando gli animali dei loro campi o suonando il "Friscalettu" siciliano. Loro erano felici: il fatto stesso di aver portato le loro esitanti performance dal tinello casalingo, o dai sagrati delle feste paesane, nel luccicante mondo della tv rendeva il loro sguardo estasiato e soddisfatto.

Sono nostri connazionali, votano come noi. E' per questo che "La Corrida" vale un trattato di sociologia: nell'immensa provincia italiana dove, per ragioni tecniche o anagrafiche o culturali, internet non sanno neanche cosa sia e un libro o un giornale sono un oggetto misterioso, il fascino azzurrino del piccolo schermo ha ancora un peso decisivo non solo nell'informazione, ma nella trasmissione di modelli di comportamento. Anche in questo caso, parliamo di persone perbene, mica criminali o ladri, ma afflitti dalla zavorra di una pesante e triviale ignoranza, che non consente loro di disporre degli strumenti di base per provare a capire la realtà che li circonda. Sono sovrastati dagli istinti, il loro orizzonte è limitato, ragionano con la pancia, spesso si esprimono in un italiano malfermo.


L'illusione confortante del pomeriggio si è desolatamente dissolta la sera: non esiste solo il Palasharp, non ci sono soltanto Umberto Eco e Gustavo Zagrebelsky. Accanto al ceto medio colto e civile, esiste un'altra massa: meno visibile, certamente più numerosa e, soprattutto, pericolosa come un fiume carsico che scorre sotterraneo e, di tanto in tanto, riemerge con forza in superficie. Sorridono ammiccando nei bar di periferia parlando di calcio e di donne, si mettono in coda smadonnando negli uffici postali, vanno in farmacia per acquistare a carico dello Stato medicine di cui non hanno alcun bisogno e che poi getteranno via, guardano con atavica diffidenza edicole e librerie, attendono pigramente il pranzo e la cena ciondolando in piazza o carrellando davanti alla tv. E' un esercito di vite minori, apparenti macchiette innocue di un'Italia semplice, poveri cristi analfabeti di ritorno. Presi uno per volta, folcloristici e di schietta umanità, è inevitabile simpatizzare con gli scemi del paese. Presi tutti insieme, fanno un Paese di scemi.