sabato 26 febbraio 2011

Raìs. Di tutto, di meno.


Ci troviamo spesso, nostro malgrado, a parlar male della Rai: lottizzazione, servilismo, scarsa libertà creativa, elefantiasi. Ci fa piacere, una volta tanto, riuscire a tesserne le lodi: da quando, lunedì scorso, si è drammaticamente inasprita la crisi libica, va onestamente riconosciuto che il palinsesto è stato opportunamente rivoluzionato, per raccontare l’evolversi degli avvenimenti, rispettando pienamente la missione di servizio pubblico televisivo.

Bombardamenti sulla folla, fosse comuni, esecuzioni dei feriti negli ospedali: per tutta la settimana, man mano che si accavallavano le angosciose notizie da Tripoli, almeno una prima serata delle tre reti Rai è stata dedicata a speciali e approfondimenti. Su Rai Uno, ogni sera sembrava quasi di essere sul posto, tra la folla e la piazza Verde: collegamenti in diretta, testimonianze inedite, immagini emblematiche destinate a essere ricordate a lungo.

Le centinaia di giornalisti della tv di Stato, inviati e corrispondenti, superando le sterili divisioni tra testate, hanno fatto gioco di squadra per offrire al telespettatore un’analisi accurata dei fatti che stanno avvenendo a 70 km dalle nostre coste. In studio, nessun politico italiano è stato invitato per evitare strumentalizzazioni. Solo schede filmate, realizzate con scrupolo e commentate da esperti neutrali: il resoconto minuto per minuto, le reazioni internazionali, gli interessi economici italiani in Libia (e quelli libici in Italia), il peso energetico del Nord Africa, la possibile emergenza immigrazione, la rivoluzione del mondo arabo che ha coinvolto anche Egitto e Tunisia.


In un’ideale staffetta televisiva da Rai Uno a Rai Due si passava dalla cronaca alla storia: uno speciale curato da Giovanni Minoli ricostruiva la colonizzazione italiana, durata ufficialmente dal 1911 al 1947. Molti italiani non sapevano che fu il primo ministro Giovanni Giolitti ad iniziare la conquista della Tripolitania e della Cirenaica, inviando le truppe italiane contro l'Impero Ottomano. L'opinione pubblica dell'epoca veniva galvanizzata al suono di Tripoli bel suol d'amore, popolare marcetta patriottica portata al successo dalla bellissima chanteuse Gea della Garisenda, poi moglie discreta dell’industriale Borsalino. L'ascesa al potere del fascismo determinò un inasprirsi della politica italiana di conquista di quei territori: migliaia di morti, deportazioni, campi di concentramento, sgomberi e rappresaglie spianarono la strada alla creazione del Governatorato di quella che Mussolini chiamava “la quarta sponda d’Italia”.


Dopo i massacri, il Regno d'Italia avviò una colonizzazione che ebbe il suo culmine verso la metà degli anni Trenta con un afflusso di coloni provenienti in particolare da Veneto, Sicilia, Calabria e Basilicata. Nel 1939 gli italiani erano il 13% della popolazione, concentrati nella costa intorno a Tripoli e Bengasi (dove erano rispettivamente il 37% ed il 31% della popolazione). In Libia gli italiani costruirono infrastrutture degne di nota (strade, ponti, ferrovie, ospedali, porti, edifici, e altro ancora) e l'economia libica ne ricevette benefici effetti. Anche l'archeologia fiorì: città romane scomparse (come Leptis Magna e Sabratha) furono riscoperte ed indicate come simbolo del diritto italiano a possedere la Libia già romana.


Il turismo venne particolarmente curato con la istituzione dell'ETAL, Ente turistico alberghiero della Libia, il quale gestiva alberghi, linee di autopullman di gran turismo, spettacoli teatrali e musicali nel teatro romano di Sabratha, il Gran Premio automobilistico della Mellaha (detto internazionalmente "Tripoli Grand Prix" e disputato dal 1925 al 1940), una suggestiva località entro le oasi tripoline.


All'inizio della seconda guerra mondiale vi erano circa 120.000 Italiani in Libia. Il Governatore Italo Balbo nel 1940 aveva costruito 400 km di nuove ferrovie e 4.000 km di nuove strade (la più nota era la Via Balbia col suo nome, che andava lungo la costa da Tripoli a Tobruk). A partire dal 1937, il governo italiano aveva avviato un processo di integrazione completa della Libia nel Regno: la Libia si avviava infatti a trasformarsi da colonia a regione geografica Italiana parificata alle altre. Questo processo iniziò con la proclamazione delle 4 province di Tripoli (TL), Bengasi (BE), Misurata (MU), Derna (DE). Il 9 gennaio del 1939 la colonia della Libia fu incorporata nel territorio metropolitano del Regno d'Italia e conseguentemente considerata parte della Grande Italia.


Dopo l'eventuale vittoria contro gli Alleati, la Libia doveva essere parte del progetto fascista di una Grande Italia nella sua sezione costiera (arancione), mentre l'interno sahariano doveva fare parte dell' Impero Italiano (verde).

Il 3 novembre 1938, l'Eiar, antenata della stessa Rai, trasmise una radiocronaca da Tripoli in occasione dell'arrivo dei primi 20.000 italiani per la colonizzazione demografica della Libia; il 12 sarà attivata una stazione radiofonica, Radio Tripoli, la cui base trasmittente era a Zanzur, una quindicina di chilometri dalla capitale, mentre il centro direzionale con auditorio e apparati era nei locali della Fiera, che nel periodo bellico non ospitava nessuna manifestazione. I vari ricevitori permettevano il collegamento con la sede di Roma. Le trasmissioni erano dalle 7 alle 23 in italiano e arabo su 1104 kHz con la ragguardevole potenza, per le onde medie di allora, di 50 kW. In Italia, l'Eiar cominciò a trasmettere la lettura del Corano in arabo nel 1939, fatto che riprendeva il costume di Roma di dare la cittadinanza romana agli abitanti dei territori che man mano venivano annessi all'Impero.

La seconda guerra mondiale devastò la Libia italiana e costrinse i coloni italiani a lasciare in massa le loro proprietà. Nel Trattato di Pace del 1947 l'Italia ha dovuto rinunciare a tutte le sue colonie, compresa la Libia. Nel 1962 gli Italiani in Libia erano ancora circa 35.000. Ma dopo il colpo di stato del colonnello Gheddafi del 1969, circa 20.000 italiani furono costretti a cedere improvvisamente i propri beni e le proprie attività economiche il 7 ottobre 1970 (ancora oggi le varie associazioni di profughi e rimpatriati si battono per ottenere un risarcimento dallo Stato italiano). Nel 1986, dopo la crisi politica tra Stati Uniti e Libia, il numero degli italiani si ridusse ancora di più, raggiungendo il minimo storico di 1.500 persone, cioè meno dello 0,1% della popolazione.


La staffetta tra le reti proseguiva su Rai Tre, che ha giustamente programmato “Le rose del deserto”, l’ultimo film girato da Monicelli: nell’estate del 1940, durante la campagna del Nord Africa, una sezione sanitaria del Regio Esercito italiano si accampa a Sorman, una sperduta oasi nel deserto della Libia. La guerra lì appare come lontana, e ognuno cerca svago come può, il maggiore Strucchi (Alessandro Haber) scrivendo lettere alla giovane moglie, il tenente Salvi (Giorgio Pasotti) dedicandosi all'hobby della fotografia. Assieme ad un frate italiano (Michele Placido) i militari iniziano poi a prestare assistenza alla popolazione locale, bisognosa di cure mediche. Tutti sono convinti che la guerra finirà presto e che per Natale saranno a casa, ma arriva il momento della controffensiva inglese, che li costringerà a fare i conti con la realtà della guerra.


Ispirandosi allo stesso romanzo di Mario Tobino, “Il deserto della Libia”, vent’anni prima Dino Risi diresse “Scemo di guerra”. Il capitano Pilli (Coluche), pur con gravi disturbi mentali precedenti e indotti, si ritrova al comando di un'unità militare al fronte. Il sottotenente medico Lupi (Beppe Grillo), dotato di grande umanità e buon senso comune, comprende il disagio e il conseguente pericolo per tutti, ma nulla può fare di fronte a una trama di protezioni altolocate e interessi meschini, che valorizzano gerarchie e formalità burocratiche anziché le persone in una situazione limite come una guerra.


Grazie a questa programmazione lucida e articolata, i telespettatori sono stati informati dei fatti libici, potendo scegliere tra un taglio ispirato alla cronaca e agli approfondimenti, uno storico e uno culturale. La Rai è tornata grande, dimostrando che i palinsesti possono essere flessibili non solo quando si tratta di Pupo o Antonella Clerici, per controprogrammare Mediaset in una (finta) guerra degli ascolti, ma anche per raccontare in diretta una (vera) guerra civile. Pensate come sarebbe stato triste se, in queste sere, magari per nascondere un’amicizia imbarazzante tra Berlusconi e Gheddafi, non fosse andato in onda niente di tutto questo e avessero trasmesso, come niente fosse, “L’isola dei famosi” e le eterne, scialbe fiction consolatorie. Pensate che umiliazione per la Rai se, per scrivere queste righe, fossi dovuto ricorrere a Sky, Al Jazeera e consultare Wikipedia: saremmo diventati noi, a quel punto, la provincia dell'Impero.


lunedì 21 febbraio 2011

Tripoli bel suol d'orrore


Tripoli brucia, il Parlamento libico è in fiamme, i manifestanti vengono bombardati dall’aviazione e i morti si contano a centinaia. Con un incredibile effetto domino, il vento del Maghreb sta spazzando via in pochi giorni regimi e dispotismi al potere da decenni e travolge la residua credibilità del governo italiano, che ha puntellato fino all’ultimo autocrazie e raìs.

Abbiamo ancora negli occhi l’accoglienza, tronfia e trionfale, riservata solo pochi mesi fa a Gheddafi in visita a Roma: tenda beduina, amazzoni e Carosello dei Carabinieri, con la partecipazione di circa 130 cavalli e cavalieri dell’arma, due squadroni e una fanfara. Forse ispirata da una realpolitik affaristica tanto cinica quanto ingenua, la pagliacciata trascinò nel ridicolo la politica estera italiana.

Oggi la farsa si trasforma in tragedia: su quelle immagini, e sul successivo incredibile baciamano di Berlusconi al leader libico nel corso del vertice della Lega Araba a Sirte, si allungano il pugno di ferro della repressione del regime, le bombe e i razzi sparati sulla folla. Sono cose che possono accadere stipulando trattati di amicizia con un dittatore: la storia italiana dovrebbe avercelo insegnato.


Autoritarismi e tirannie si attraggono a vicenda, confondendo sè stessi con la nazione e stringendosi in un abbraccio mortale: non è la prima volta, non sarà l’ultima. Restano ancora da chiarire molte cose, in questa corsa improvvisa, veloce e disperata del mondo arabo verso la libertà: per esempio, il ruolo strategico degli Stati Uniti e del loro Presidente Barack Obama (ricordiamo il suo discorso all’Islam, tenutosi nel 2009 proprio all’Università del Cairo, nel quale il futuro Nobel per la pace proponeva un “nuovo inizio” al mondo musulmano, affermando tra l’altro che “la libertà di religione è centrale per la possibilità dei popoli di vivere insieme”) o la parte giocata dal “sesto potere”, rappresentato da internet e dai social network, nel travolgere censure e propagande.


L’unica cosa che appare veramente nitida è la miopia del governo italiano, la sua inadeguatezza politica e la totale, mancata comprensione delle istanze storiche di un continente e di una popolazione civile pronta a morire, a versare il suo sangue e ad affrontare a mani nude le pallottole di eserciti e mercenari, pur di liberarsi di quei dittatori con cui noi, fino a ieri, siglavamo intese e scambiavamo battute, tra cavalli berberi e Frecce tricolori.

domenica 20 febbraio 2011

So what?


L’altra sera mi trovavo a Madrid, a cena con la direttrice di un importante istituto di ricerca internazionale. Era il giorno del rinvio a giudizio di Berlusconi per cui cercavo, sul filo dell’attualità, di spiegarle l’antefatto, in particolare l’episodio della telefonata alla Questura. Lei, statunitense che vive e lavora a Francoforte, mi ha spiazzato con la sua mentalità anglo–tedesca: “So what?”

Ovvero: se anche fosse stata la nipote di Mubarak, cosa sarebbe cambiato? Se aveva rubato, avrebbe comunque dovuto pagare il suo conto con la giustizia. Un passaggio logico elementare in una comunità repubblicana civile diventa un affascinante esotismo giudiziario in una repubblica delle banane come la nostra.

Abituati come siamo a considerare parentele e raccomandazioni come utili lasciapassare per scroccare posti e prebende, le stesse forme di nepotismo vengono adesso pubblicamente invocate, dal Presidente del Consiglio, addirittura come attenuanti di un reato; il tutto nell’indifferenza generale. Siccome siamo uomini di mondo, il dibattito si è immediatamente spostato al livello successivo: era davvero convinto che fosse la consanguinea dell’(ex) presidente egiziano? Stava mentendo? Che rapporti c’erano tra i due?

Ipotizziamo che la cubista Ruby Rubacuori fosse realmente la nipote di Mubarak. Tanto basta a giustificare l’improvvida telefonata? Familiari, congiunti e affini di capi di stato stranieri possono venire tranquillamente a delinquere nel nostro Paese e non si può procedere nei loro confronti altrimenti si “rischia l’incidente diplomatico”? Scaltri retroscenisti e acuti dietrologi, noi italiani tendiamo sempre a vivisezionare quel che accade dietro le quinte ignorando quanto avviene sul palco principale: nel dibattito pubblico su questa squallida vicenda abbiamo tralasciato un piccolo dettaglio. Si chiama Stato di diritto.

sabato 19 febbraio 2011

Italo scialbo

Il premier non salva più la forma
Preferisce le forme alle riforme
Se arrivasse qualcuno a dire: “Tutti fermi!”
In molti metterebbero la firma
Gente arrogante ignorante ed irridente
Gente che non vede e che non sente
Gente sorda e cieca ma sicura
E’ così che nasce una dittatura
E’ un regime che non ammazza mica
Gli basta la spartizione della fica
E alla divisione dei poteri
Antepone quella dei sederi
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Consapevole profeta fu quel Dante
Predisse il presidente senza un dente
Che come stregone di laboratorio
Trasformò l’Italia in Purgatorio
Glorificava il governare e il fare
Stava solo allestendo il lupanare
La dignità deve togliersi di mezzo
Uomini e donne hanno tutti un prezzo
Mille, uno, dieci, cento
Facile comprare il Parlamento
Coi danè di una prima serata
Ti porti a casa qualche deputata
Al nuovo miracolo promesso
Ci crede ancora solo qualche fesso
Che idolatra solitario Berlusconi
Ingiallito oramai nelle affissioni
Illusione di democrazia
In un cartellone di periferia.

sabato 12 febbraio 2011

T.V.B.


Ore 7:00 Porn Flakes. Magazine del mattino. In diretta da via Olgettina.

Ore 8.00 Per la serie La storiella siamo noi, va in onda il documentario “Montesquieu: chi era costui? Dalla divisione dei poteri al potere della divisione”.

Ore 9:00 Il penefattore. Programma di solidarietà per giovani bisognose.


Ore 10:00 Geo & Gay. Spazio dedicato alla sinistra.


Ore 11.00 Cortesie per le ospiti.
Bonifici, assegni, contanti, collier, Rolex e pietre preziose in un tripudio di cortesia: niente pin, solo pen.

Ore 12.00 La signora in fallo


Ore 13.00 Il discorso del reo. Anteprima


Ore 14.00 Harem.


Ore 15.00 Cielline. Dopo Veline, il talent alla ricerca di nuove soubrette tra le giovani di Comunione e Liberazione. In diretta dal Pirellone; collegamenti da Rimini.


Ore 16.00 La pupa e il vecchione


Ore 17.00 Verissimissimo Ti giuro che è vero – Speciale Diritto alla privacy. Conduce Alfonso Signorini. Con Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Alessandro Sallusti, Claudio Brachino.


Ore 18.00 Lie to Italy. Gara tra sicofanti, mestatori, faccendieri e maneggioni a chi spara la palla più sesquipedale.


Ore 19.00 Tre nipoti e un maggiordomo. Con Ruby Rubacuori, Nicole Minetti, Michele Conceicao Dos Santos Oliveira e la partecipazione straordinaria di Carlo Rossella.


Ore 20.00 Tg (di) Uno.

Scaletta:
- Esclusivo: il giudice competente non è la Procura di Milano né il Tribunale dei Ministri. E’ Forum
- Berlusconi mostra di essere senza un dente. Un leader privo di molare.
- Cronaca: ampio servizio su bambini scomparsi, distrutti, bruciati, annegati, polverizzati, sciolti nell’acido, mangiati dai comunisti.
- Storia: le intercettazioni nella DDR
- Marchetta quotidiana: crociera, la vacanza preferita dagli italiani. 
- Curiosità: i delfini imparano a giocare a burraco e a guardare la tv. Dopo averne visto 5 minuti, distruggono lo schermo con un colpo di pinna. Il che dimostra che sono effettivamente più intelligenti degli esseri umani.

Ore 21.00 Law and Disorder

Alla stessa ora, verrà trasmesso il film “Baarìa” a circuito chiuso, nella città di Arcore.

Ore 21.30 Le mie pigioni. Sceneggiato. Di Silvio Pelvico.

Ore 22.00 Festivalbaro
Le canzoni in gara questa sera: “Stasera pago io” - “Nessuno mi può giudicare” – “Dieci ragazze” – “Se telefonando” - “Vengo anch’io”

Ore 23.00 Il corpo del reato. Docu-fiction. Con Ruby Rubacuori.


Ore 24.00 Elisir (di Bunga vita).
In questa puntata: seno e senilità.

domenica 6 febbraio 2011

Italia d'Egitto

Il dialogo tra la maggioranza e i vari esponenti dell’opposizione moderata sembra dare nuova linfa al percorso per le riforme costituzionali. Al termine dei colloqui, il governo ha annunciato un'intesa che stabilisce la road map della transizione. Nel frattempo, l’opposizione più radicale convoca nuove manifestazioni di piazza e si prevedono nuovi cortei di massa nei prossimi giorni. Le forze di opposizione più intransigenti si dichiarano insoddisfatte in quanto non è stata accolta la principale richiesta del movimento, la rimozione del despota, al potere da decenni. Preoccupa l’opinione pubblica internazionale la crescente pressione esercitata dal governo sul web, sui mezzi di informazione e, più in generale, sulle comunicazioni: al riguardo, il regime ha dichiarato che non accetterà pressioni straniere. Il Gruppo per la Giustizia e la Libertà vede con favore la formazione di un governo di unità nazionale per garantire una transizione pacifica del potere e la riforma costituzionale. Forte preoccupazione anche per i siti archeologici, una delle principali fonti di ricchezza del Paese, ultimamente deserti e lasciati in uno stato di desolante abbandono.

Abbiamo appena trasmesso le ultime notizie dall’Italia. D’Egitto.

Democrazia allo sbaraglio


Ieri guardavo in tv la bella manifestazione di Libertà e Giustizia, facce pulite, gente perbene, intellettuali, la parte migliore dell'Italia; anche se, come al solito, alla sacrosanta richiesta di dimissioni non corrisponde un'alternativa concreta e spendibile politicamente. Poi, la sera, mi sono imbattuto in alcune scene de La corrida.

Sono rimasto stupito di fronte alla gran quantità di figurette provinciali, che sembravano uscite dall'Italia degli anni '50, pronti a immolarsi in mediocri esibizioni. Operai in pensione, disoccupati, estetiste e lavoratori ortofrutticoli sfidano i fischi e i campanacci riproponendo improbabili danze popolari, facendo le pernacchie con le ascelle, imitando gli animali dei loro campi o suonando il "Friscalettu" siciliano. Loro erano felici: il fatto stesso di aver portato le loro esitanti performance dal tinello casalingo, o dai sagrati delle feste paesane, nel luccicante mondo della tv rendeva il loro sguardo estasiato e soddisfatto.

Sono nostri connazionali, votano come noi. E' per questo che "La Corrida" vale un trattato di sociologia: nell'immensa provincia italiana dove, per ragioni tecniche o anagrafiche o culturali, internet non sanno neanche cosa sia e un libro o un giornale sono un oggetto misterioso, il fascino azzurrino del piccolo schermo ha ancora un peso decisivo non solo nell'informazione, ma nella trasmissione di modelli di comportamento. Anche in questo caso, parliamo di persone perbene, mica criminali o ladri, ma afflitti dalla zavorra di una pesante e triviale ignoranza, che non consente loro di disporre degli strumenti di base per provare a capire la realtà che li circonda. Sono sovrastati dagli istinti, il loro orizzonte è limitato, ragionano con la pancia, spesso si esprimono in un italiano malfermo.


L'illusione confortante del pomeriggio si è desolatamente dissolta la sera: non esiste solo il Palasharp, non ci sono soltanto Umberto Eco e Gustavo Zagrebelsky. Accanto al ceto medio colto e civile, esiste un'altra massa: meno visibile, certamente più numerosa e, soprattutto, pericolosa come un fiume carsico che scorre sotterraneo e, di tanto in tanto, riemerge con forza in superficie. Sorridono ammiccando nei bar di periferia parlando di calcio e di donne, si mettono in coda smadonnando negli uffici postali, vanno in farmacia per acquistare a carico dello Stato medicine di cui non hanno alcun bisogno e che poi getteranno via, guardano con atavica diffidenza edicole e librerie, attendono pigramente il pranzo e la cena ciondolando in piazza o carrellando davanti alla tv. E' un esercito di vite minori, apparenti macchiette innocue di un'Italia semplice, poveri cristi analfabeti di ritorno. Presi uno per volta, folcloristici e di schietta umanità, è inevitabile simpatizzare con gli scemi del paese. Presi tutti insieme, fanno un Paese di scemi.