domenica 22 marzo 2009

Gran Torino, grandissimo film

Il film si apre con una morte americana e con la nascita di un bambino Hmong (minoranza etnica sino-vietnamita). Nella società statunitense, che invecchia e muore, i padri non riconoscono più i figli e i nipoti. Le nuove generazioni, grassocce e superficiali, appaiono senza idee, senz’anima. I musi gialli invece, tra mille contraddizioni, possono contare su una dimensione collettiva ancora cementata e, soprattutto, coltivano la speranza di un riscatto possibile.

Nel personaggio di Walt Kowalski riecheggiano in lontananza tutti i personaggi interpretati da Eastwood, come in una carrellata conclusiva per chi si sente vicino alla fine: ritroviamo, appena accennata nell’epilogo, la dimensione epica dei western di Sergio Leone, con la sigaretta in bocca e la ricerca della pistola; ritroviamo anche la tentazione della giustizia fai da te del razzista ispettore Callaghan e la noia e lo spirito paterno del manager Dunn di Million Dollar Baby. Come in Flags of Our Fathers e in Lettere da Iwo Jima, il punto di vista americano e quello asiatico trovano qui una loro sintesi definitiva, in quanto provvisoria.

Kowalski si ritrova, quasi suo malgrado, ad esercitare le funzioni di un papà putativo che, in un rapporto assai più profondo che con i figli naturali, riscopre la dimensione e il significato più profondo della vita e, quindi, della morte. Le chiacchere dei preti servono a poco: occorre agire. Agire da uomini giusti, per meritarsi finalmente quella dannata medaglia di Corea e recuperare il senso di una religiosità finalmente autentica, cristologica.

Questa volta per agire, recuperare il sogno americano e rifondare il senso di una nazione, come fanno i veri padri, la pistola non serve. La stessa Gran Torino, con la quale Starsky e Hutch inseguivano i cattivi degli anni 70, rimane chiusa in garage: simbolo toccante di un’epoca che fu e che fummo, della grandezza dell’industria automobilistica a stelle e strisce e di un immaginario collettivo che si stanno sgretolando.

La possibilità di integrarsi con i vicini da casa, che sono e saranno il resto del mondo, sta tutta nella capacità di interpretare il senso del confine. Da un lato, un confine che delimita la tua identità e che quindi consente la consapevolezza, requisito necessario per la conoscenza. Dall’altro, forte di questa coscienza identitaria, quel confine può e deve essere superato: andare oltre il giardino perché non si può restare fino alla fine sotto il patio a bere birra.

Un capolavoro denso, ricco, stratificato nei percorsi di senso possibile quanto asciutto, classico, esemplare nella narrazione. Il volto e la presenza monumentali di Eastwood riempiono lo schermo e si trova spazio anche per qualche risata, perché la vita è fatta così. Perché, nonostante tutto, il gusto del viaggio verso la frontiera di un mondo più giusto ti mette almeno un po’ di buon umore. Deve essere questo che pensa Thao, lo sguardo finalmente adulto, mentre guida la sua Gran Torino verso il futuro.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

bella recensione giulio!
Sonia

Giulio Lo Iacono ha detto...

Grazie Sonia! Ho cercato di rendere onore a un film che, secondo me, tra qualche anno spiegherà molto bene il nostro tempo.