sabato 18 settembre 2010

Buone nuove

Le nuove tecnologie saranno nuove per l’eternità? Evidentemente, non ci siamo ripresi dallo shock culturale provocato dall’avvento di Internet: preferiamo continuare a indicarli, per inerzia, pigrizia o timore, come “new media”, quasi fossero ancora agli albori, anziché ammettere che la rete è indispensabile nella nostra vita quotidiana, ci offre un’informazione “ambientale” e diffusa, modificando percezioni e modi di pensare.

Per esempio, sul mio iPad, sottile e leggero, davanti al caffè mattutino leggo molto comodamente i giornali che ho sottoscritto (inclusi gli approfondimenti e i contenuti multimediali connessi agli articoli, oltre ad arretrati e allegati, che posso archiviare a piacimento). Se dovessi abbonarmi alle corrispondenti versioni cartacee, le poste consegnerebbero il quotidiano a mattina inoltrata, quando sono già in ufficio. Esistono servizi di corrispondenza privati che consegnano la stampa entro le sette davanti all’uscio, ma avrei dovuto consegnare le chiavi del portone a sconosciuti e l’amministratore del condominio era contrario. Le “nuove” tecnologie consentono quindi di esercitare al meglio, liberandoci da vincoli logistici e con connotazioni sensoriali e tattili quasi ludiche, un rituale antichissimo come la lettura del quotidiano, indicata già da Hegel come “la preghiera del mattino dell’uomo moderno”. Altro che novità: il primo esempio di quotidiano, inteso come pubblicazione giornaliera con resoconto degli avvenimenti politici e di attualità, risale al 59 a.C. quando a Roma Giulio Cesare istituì gli Acta Diurna, che venivano affissi nei luoghi pubblici.

Esempio numero 2. Scorrendo il palinsesto di Sky sull’iPhone, mi imbatto spesso in film che mi piacerebbe vedere, ma sono spesso in giro quando lo scopro. Con il provvidenziale pulsante “Registra”, tornando a casa trovo il film in alta definizione, perfettamente registrato sull’hard disk del mio decoder. Niente costi aggiuntivi, né dvd da riportare al videonoleggio, né download illegale con violazione dei diritti d’autore e (spesso) discutibile qualità audio/video delle pellicole scaricate.

Infine, nel mio quartiere ha aperto da poco una libreria Mondadori; non ho resistito alla tentazione di farci un giro. Due intere pareti erano tappezzate da blockbuster insulsi e qualche romanzo tappabuchi; interi settori dedicati a volumi sul barbecue perfetto, su come spulciare il bassotto o sui Gormiti. La striminzita sezione politica era ovviamente stata depurata della copiosa produzione saggistica critica nei confronti del Cavaliere, mentre faceva bella mostra di sé L’amore vince sempre sull’odio, con la copertina tricologica strategicamente piazzata ad altezza d’occhio come alla Esselunga. L’idea che qualcuno decida per me cosa devo e non devo leggere mi irrita; esco senza salutare e mi dirigo a passo spedito verso i tavolini di un bar. Panino, spremuta e torno su internet: per 0.79 € c’è un nuovo bellissimo aggregatore di news e poi ho voglia di rintracciare un libro introvabile. Su Amazon.

domenica 12 settembre 2010

Somewhere else


Quanti film ci hanno raccontato la crisi di figli lasciati soli da genitori separati, debosciati, spesso le due cose insieme? Dai tempi di Kramer contro Kramer, uno dei capostipiti del genere, pellicola di rara profondità e delicatezza, oltre alla famiglia e'andato in crisi anche il cinema. Il risultato di questa involuzione e' il Leone d'oro a Somewhere, fotocopia sbiadita di Lost in Translation, altra regia di Sofia Coppola decisamente sopravvalutata.

Una volta il cinema si occupava della vita, oggi avviene il contrario, il cinema racconta sé stesso, come fa la tv con i reality, ma in chiave sfigata: la celluloide diventa autoreferenziale per piangersi addosso. Il film ruota attorno a un padre attore di successo con annessa vita dissoluta che, come avviene anche ai geometri (a parte la vita dissoluta), non è in grado di costruire un rapporto decente con la figlia e cerca di rimediare come può, alla ricerca del vero senso della vita (sic). Abbandonata la narrazione lineare, tutta la storia si dipana attraverso un affastellarsi di episodi, probabilmente montati da un bambino bendato come nelle estrazioni del Lotto, che dovrebbero restituirci la crisi tra i due e poi il suo parziale, malinconico superamento.

La storia ricalca l'infanzia di Sofia Coppola che, figlia del grande Francis, ha passato diversi anni dimorando tristemente in alberghi a cinque stelle e con un padre che, se l’attore protagonista e' il suo alter ego, si scopava chiunque gli capitasse a tiro. Posto che e' sempre meglio essere infelice in una suite con piscina privata al Principe di Savoia che in un monolocale a Tor Bella Monaca, la giovane regista adesso vuole rifarsi a nostre spese dei (presunti) torti subìti, ammorbandoci con uno stile lagnoso e conformista, seguendo le orme del padre. Con due piccole differenze: lui era il cinema, lei vorrebbe esserlo; lui girava, lei gira a vuoto.

Le atmosfere sordide del Padrino continuano ad avere un ruolo nella vita della piccola Coppola (nomen omen): l'italico familismo amorale, una delle radici della subcultura mafiosa qui in versione red carpet, appare come il principale atout che le ha consentito di vincere un immeritato Leone grazie al Presidente di giuria Quentin Tarantino, suo ex nella vita reale. Probabilmente la leggiadra Sofia sublimerà questa ennesima ingiustizia che la vita le ha riservato nel suo prossimo film, magari sempre ambientato in un albergo, "non-luogo" perfettamente speculare al suo "non-cinema". E anche in quell'occasione, troverà in giuria un amico di papà, o un altro ex, o un cugino, o Nicolas Cage, anche lui parte della famigghia, tutti disposti ad aiutarla con l'eterna scusa che si riserva a quelli che nella vita se la cavano così così: poverina, ha avuto un'infanzia difficile.

sabato 4 settembre 2010

Seven Up


Sette sono i colori dell'arcobaleno, i cieli dell'antichità, i colli di Roma, i continenti, le virtù, i peccati capitali, i bracci del candelabro ebraico, le meraviglie del mondo e i giorni della settimana, le note musicali, le spose (per altrettanti fratelli) e le sorelle (nel senso delle compagnie petrolifere). Per non parlare di nani e samurai, delle vite di un gatto, delle camicie sudate e degli anni di disgrazia quando si rompe uno specchio. Oltre sette sono anche i punti di share che Enrico Mentana ha conquistato su la7, dopo la prima settimana alla guida del rinnovato telegiornale della rete.

Lo studio è piccolo e anonimo, la qualità video dei servizi spesso scadente, i collegamenti in diretta quasi inesistenti, corrispondenti nessuno e inviati col contagocce. Politicamente e mediaticamente, Mentana ha davanti un’autostrada deserta; ma lui la percorre con professionale cautela, anche perché la vettura disponibile è quello che è. I mezzi sono limitati rispetto alle corazzate Rai e Mediaset e il riccioluto direttore, classe 1955, punta tutto sul suo carisma di affabulatore per l’edizione delle 20.

Una scelta proficua per gli ascolti, che hanno ormai superato il milione e mezzo di spettatori (sempre comunque a distanze siderali dal Tg1 e dal “suo” Tg5). Gli evidenti limiti tecnici del telegiornale targato Telecom vengono però compensati dall’esperienza di Mentana: un vero anchorman che si concede il lusso di “raccontare” le notizie del giorno, talvolta chiosandole con un commento, potendo contare su un patrimonio di credibilità sconosciuto ai tanti altri lettori di gobbo elettronico in circolazione.

Un telegiornale “caldo”, paradossalmente simile, solo in questo, al Tg4 di Fede: un direttore carismatico in video, pochi mezzi, ogni tanto qualche esegesi moraleggiante dei fatti. Ovviamente Mentana si differenzia dal suo antico dirimpettaio Mediaset per tutt’altra indipendenza nei giudizi espressi, ma alcune analogie formali restano.

La scaletta è confezionata rispettando l’intelligenza dei telespettatori, mette in ordine le hard news, senza infingimenti e senza “insabbiamenti”, anche se va lamentata una scarsissima presenza degli esteri. La sensazione complessiva che se ne trae è quella di un telegiornale ben fatto, ma quasi d’opinione, che riuscirà appena a scalfire gli ascolti dei due rivali alle 8 di sera; effetti balsamici potrebbero arrivare dalla probabile fine anticipata della legislatura e dalla campagna elettorale di primavera, in grado di “illuminare” il TG la7, come già avvenne a Mentana per il neonato TG5 con le elezioni del 1992.

Sono pienamente d’accordo con quanto ha scritto Curzio Maltese su Repubblica: complessivamente, un telegiornale normale, senza particolari innovazioni editoriali, né guizzi creativi, né coraggio politico. Ma in questi tempi buissimi per il giornalismo televisivo italiano, anche fare una cosa normale può avere il sapore liberatorio e inebriante della rivoluzione.