martedì 12 maggio 2009

Rome wasn't built in a day

L’Italia non ha conosciuto nessun governo unitario dalla caduta dell’Impero romano alla fine del Risorgimento. Numerose potenze straniere ci hanno lungamente occupato, combattendosi lungo la penisola per affermare il loro dominio.

In secoli di conquiste e invasioni, gli italiani hanno forgiato un eccezionale spirito di adattamento, necessario per sopravvivere in quelle difficili circostanze. La disponibilità a sottomettersi, l’ossequio al nuovo padrone, l’arte del compiacimento erano un compromesso indispensabile per garantirsi un’esistenza dignitosa. A volte anche un’esistenza e basta.

Il passare del tempo sembra tuttavia aver cristallizzato quel necessario trasformismo, facendolo diventare parte di un’indole permanente. Le tracce di quest’eredità culturale sono cronaca quotidiana: nella vita pubblica, nella politica, negli ambienti di lavoro, nel giornalismo. I frutti avvelenati si chiamano conformismo, indifferenza, omologazione. Capita di assistere a imbarazzanti monologhi, che si ostinano a chiamare interviste, nei quali il giornalista si immedesima alla perfezione nel ruolo del fedele maggiordomo e manca poco che offra il caffè al suo ospite.

Naturalmente, il problema non riguarda soltanto l’Italia: nel suo famoso saggio Spagna invertebrata, Ortega y Gasset lamentava l’assenza di una spina dorsale nell’opinione pubblica del suo Paese. Una forma di scoliosi sociale che, come diagnostica Sartori, affligge pesantemente anche il nostro Paese. La gobba di Andreotti, il leader più rappresentativo della cosiddetta Prima Repubblica, vista in quest’ottica assume una valenza quasi cristologica, simbolica incarnazione della politica del “piegarsi” per schivare i colpi e tirare a campare.

Sempre prontissimi a correre in soccorso del vincitore, abbiamo dimostrato straordinaria fantasia istituzionale per assecondare la nostra freudiana volontà di sottomissione, dandogli la forma di regimi o consuetudini più o meno codificati: fascismi, democrazie bloccate e, come osserva ancora Sartori, “sultanati”.

Ci piace intimamente applaudire al marajà, che infatti non si preoccupa neanche più di nascondere il suo harem. Il fenomeno è stato descritto come meglio non si potrebbe dalle parole e dalla musica di Vinicio Capossela:

raglia tutta la marmaglia quando raglia il Marajà
sguaian forte i commensali versan gli otri ed i boccali
il pascialato si stravacca se stramazza il Marajà
ma zittiscono e squittiscono se sternuta il Marajà
si stupiscono e svaniscono se si acciglia il marajà
i giannizzeri ottomani fanno guardia ai suoi divani
col ventaglio e col serraglio danno lustro al Marajà

Viene da pensare che il problema non stia nel sultano ma nei sudditi. Gaber diceva: “Non ho paura di Berlusconi in sé. Ho paura di Berlusconi in me”.

Se dobbiamo immaginare il nostro comune percorso di emancipazione nazionale come graduale raddrizzamento di questa schiena perennemente chinata a 90°, ammettiamo che, negli ultimi 15 anni, abbiamo visto più la punta delle scarpe che la luce del sole: è arrivato il momento di prendere finalmente un po’ di fiato e ritrovare il piacere di guardare verso l'alto.

1 commento:

Anonimo ha detto...

E' incredibile come ancora ci si ostini a chiamare dei servi "giornalisti". Credo che ormai questa professione non abbia più alcun lustro e credibilità nel nostro Paese salvo rarissime eccezioni che si possono contare sulle dita di una mano sola.
Buona giornata, vai avanti così.